domenica 13 febbraio 2011

“Educare alla pienezza della vita”

Giornata per la vita
“Educare alla pienezza della vita”


Teano, 6 febbraio 2011
Salone dell’Episcopio

Intervento di
S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello
~
 
Ringraziamo il professore[1] per questa dottissima relazione.
Innanzi tutto, Isaia 21 – ma lui non lo sapeva – è il motto del Vescovo di Teano-Calvi e quindi – dico a mo’ di scherzo – non parlare della fune in casa dell’impiccato
Ho cercato, mentre lo ascoltavo, di tentare un accostamento che fosse modulare a quello che in una maniera molto dotta ci ha detto e – direi così – anche in una maniera molto sintetica. Se bisogna chiedere alla sentinella quanto resta della notte e la sentinella non risponde, ma dice: “Continuate a chiedere”, questo – ci ha detto il professore – significa speranza. Ma quelli che fanno le domande sono i bambini.
I bambini sono gli esperti delle domande.
Purtroppo – e spero di non offendere voi qui presenti, che invece vi ponete tante domande – gli adulti tendono a non utilizzare molto il punto interrogativo, ma eccessivamente quello esclamativo o la punteggiatura ferma.

Il professore ha detto, all’inizio della relazione, che l’amore agapico è germinativo: questo è vero, ma al tempo stesso (ovviamente mentre uno ascolta, segue anche i suoi pensieri), guardavo la società, senza ombra di giudizio, beninteso. La nostra famiglia, la nostra società civile, la nostra cultura stanno producendo qualcosa? Perché anch’io debbo generare; anche Don Pasqualino, anche Don Geppino, che sono presbiteri, debbono generare. Voglio dire che tutti dobbiamo generare: non solo voi che siete sposati, ma anche voi che siete sposati e che forse avete superato la soglia di una germinazione fisica di figli, non dovete smettere di generare.
Perché questa ulteriore problematizzazione? Perché la realtà che abbiamo davanti è una realtà fondamentalmente conservativa ed è terribile questo termine (io spero, ovviamente, di sbagliarmi). “Conservativa” significa che la classe politica (il Vescovo non fa mai riferimenti, ma adesso ovviamente è immediato l’aggancio), non riesce ad avere figli, a qualsiasi livello: dalle amministrazioni provinciali, regionali, comunali, a livello nazionale (ma quello che vediamo in grande è il frutto delle nostre scelte nel piccolo). Fondamentalmente è questo il problema.
Il professore parlava dell’artigiano. L’artigiano teneva a bottega un ragazzo e gli trasmetteva l’arte; così, per secoli, certi mestieri sono andati avanti, da padre in figlio o in una paternità ampia, che non era fisiologica, perché il ragazzo non era il figlio ma in qualche maniera diventava il figlio di colui che lo teneva a bottega, e così sono nati gli artisti o semplicemente altri artigiani.
La nostra classe politica ha figli?
La risposta che mi viene subito è che i primi ad avere ucciso i figli sono loro: non ne hanno (sorrido, ma amaramente), non ne hanno perché non ne vogliono avere, nel senso più deleterio del termine. E questo – attenti – non è un giudizio su di loro, ma su di noi, perché i figli ci impauriscono. E perché ci impauriscono? C’è la paura dell’altro, la paura dell’altro diverso da me, perché l’altro, diventato grande, mi può detronizzare.

Carissimi qui riuniti nella Giornata per la Vita, la vita va oltre se stessa, a prescindere da ogni riflessione d’ordine morale, molto in alto: la vita vuole vivere e la vita vuole vivere generando. Quindi i figli, in qualsiasi termine li assumiamo – anche i miei figli, i figli di Don Pasqualino, i figli della comunità, i figli dell’ingegnere, i figli del politico, i figli dell’artigiano – costituiscono il ponte verso un tempo che noi non vivremo, uno spazio che non abiteremo, come una sorta – dice Gibran, poeta libanese che altre volte abbiamo citato – di freccia che lanciamo verso il futuro.
Ebbene, se questo è il futuro, la freccia rischia di caderci in testa, perché noi non stiamo generando. Quello che dico – perché è più chiaro – di un mondo politico, di una classe politica che pensa solo a difendersi, potrei dirlo anche della Chiesa. Attenti, faccio anche un’autocritica: una sorta di gerontocrazia ce l’abbiamo anche noi, dove il giovane – qui non ce ne sono, ne intravedo solo qualcuno là in fondo – dice: “Questo non è il mio ambiente, non riesco a respirare!”, perché l’adulto tiene i segreti per sé, si mangia il capitale, fosse anche il capitale del DNA, se non quello economico, se non quello culturale, cioè godiamoci la vita come se il mondo dovesse finire adesso.

Mi ha fatto piacere il riferimento anche all’ambiente, perché se ci saranno dei figli, questi figli avranno un orizzonte. E se ci sarà un orizzonte per i miei figli, vorrei che fosse un bell’orizzonte, per cui anche la raccolta differenziata entra in una dimensione di vita, stavolta nei termini della qualità della vita. Se io pianto un albero, è un canto alla vita, perché pianto un albero di cui probabilmente non mangerò i frutti, perché i frutti li raccoglierà mio figlio. Una volta, in questa sede, vi ho parlato del carrubo che impiega, pare, quarant’anni per far frutti: io pianto un carrubo e tra quarant’anni qualcuno mangerà… Adesso nessuno più mangia di questi buoni frutti, è diventato un albero ornamentale (sono le sciuscelle, per intenderci: diamo anche una traduzione più popolare…). L’albero di sciuscelle, che ha bisogno di un arco di quarant’anni per produrre il frutto (è anche bello il carrubo: ce n’è uno nel giardino dell’Episcopio, piuttosto giovane), significa: io produco un gesto per un ambiente che non abiterò, ma di cui usufruirà un altro. Questa è cultura della vita.
Allora, ciascuno di voi si chieda:
1) Io ho dei figli? e, rispetto a questi figli – molti di voi sono genitori, conosco diversi di voi – come mi pongo? mi pongo nella dimensione difensiva o nella dimensione di accompagnare questi figli nella vita?
2) Bastano i figli che ho generato?
Magari bastano, ma ci sono altri figli che vogliono nascere. Anche un’idea è un figlio, anche un albero è un figlio, anche un fiore è un figlio, anche un mobile è un figlio, anche una lampada, un microfono… Senza banalizzare, ma per dire – oltre la fecondità che fino ad oggi la mia vita ha generato nei termini di cultura, di fantasia, di poesia, di ambiente – quanto altro io posso fare per non entrare anch’io – perché questo pericolo lo viviamo tutti, oggi – in questa logica egoistica: il mondo finisce con me, conviene che mi mangio il capitale. Invece questo capitale va investito.
Attenti a nascondere – immagine classica – sotto la mattonella o nel materasso, il capitale, perché il capitale va messo in circolazione, ovviamente con tutti i rischi che questo comporta, perché tu generi un figlio col capitale e il figlio ti uccide (Quoque tu, Brute, fili mihi!); tu metti questa forza, questa idea, questo progetto in circolo e ti rispondono “picche”, oppure non ti torna l’interesse che avevi intenzione di suscitare. Però il fatto di impiegare il capitale – leggi “vita”, leggi “tempo”, leggi “cultura”, leggi “fede”, leggi “società”, leggi “tutto” – per l’altro, credo che sia una legge fondamentale di vita, perché le idee – che pure sono figli e figlie – se io le rimugino tra me e me, mi fanno male, creano un’acidità allo stomaco; se invece si comunicano, come stiamo tentando di fare adesso – magari voi vi sentite aggrediti dalle idee del Vescovo, mentre in una maniera più dolce il professore vi ha cullati con un pensiero più distillato (io sono un po’ più terra-terra) – se queste idee vengono dette, allora creano altre idee, i figli generano i figli, fino alla terza e alla quarta generazione.

Chiudo con un’espressione bellissima sui figli che è nel Salmo 126. Normalmente è il Salmo 127 quello che riguarda la famiglia:
La tua sposa come vita feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.

Invece scendete di un salmo, ammesso che abbiate in testa il salterio, e arrivate al Salmo 126 dove il salmista dice:

Ecco, dono di Dio sono i figli,
è Sua grazia il frutto del grembo.
Come frecce in mano all’eroe
sono i figli della giovinezza.
Beato l’uomo che piena ne ha la faretra:
non resterà confuso quando verrà alla porta
a trattare con i propri nemici.

Quindi i figli sono dono di Dio, d’accordo, però – dice anche il salmista – dipendono da te, perché sapete bene che Dio vuole i figli, ma se non li voglio io, non nascono. Allora sono, nell’immagine del salmista, ovviamente in tempi dove bisognava difendersi, “frecce nella faretra”, in modo tale che io possa prenderne. È piena la tua faretra? Quanti figli hai sulle spalle?
I figli stanno sulle spalle come la faretra da cui prendiamo le frecce: questi figli ci difenderanno. Alla fine – chiudo con questa immagine, se è vera com’è vera l’espressione del Salmo 126 – si salveranno solo le famiglie numerose, anche la mia: io ho 84000 figli (ma molti non mi riconoscono neanche come padre, non sanno neanche che esisto).
Si salveranno le famiglie numerose: tu quanti figli hai avuto? Non è importante se hai fatto bene, se hai fatto male, se hai sbagliato (dieci sbagli, cinquanta sbagli, tremila sbagli…): arriveremo tutti malconci, alla fine della gara, ma ci salveranno i figli, cioè ci difenderanno. Due, dieci, cento, mille figli verranno a dire: “Ma questo è mio padre! Non lo condannare!”.

Io vi auguro che nella vostra vita, ma anche nella vostra professione, abbiate dei figli, cioè persone nate da voi, nate dalla vostra voglia di vita, di socialità, di intraprendenza, di produttività, nel senso più alto del termine, e che domani verranno a difendervi davanti a Dio.
Da solo non mi salverò: mi salveranno i miei figli.

***
Il testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.


[1] Prof. Gennaro Iorio, Docente di Sociologia generale presso l’Università di Salerno

Nessun commento:

Posta un commento