mercoledì 27 aprile 2011

La differenza fra "reato" e "peccato"
e il valore dell'intenzione di non peccare
per ricevere l'assoluzione


Innanzitutto leggetevi questa storia, riportata da Orazio la Rocca su Repubblica, pregate per la protagonista e per la sua conversione, e per i frati - loro malgrado - sotto i riflettori dei media (e ad essi va tutto il mio appoggio e solidarietà fraterna).

Sembra quasi surreale dover spiegare che chi ha l'intenzione di commettere un peccato e non vuole fermamente evitarlo non può essere assolto in confessione, "semplicemente" perchè non solo non è pentito, ma rimane intenzionato a commettere un peccato. Eppure chissà quante volte un siffatto penitente avrà detto l'atto di dolore rivolto a Dio: Propongo col tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le occasioni di peccato. (Ma dimentico che l'atto di dolore non è più tanto conosciuto e spesso nemmeno richiesto....). Qui pare si corra verso l'occasione di peccato, altro che fuggire!

Comunque sia l'episodio avvenuto nella Chiesa di San Francesco di Treviso e di cui parla perfino Repubblica, oltre che la stampa locale, è un sintomo della confusione morale e religiosa esistente tra gli stessi "praticanti".

Una donna nubile confessa ad un frate che ha intenzione di sposare un divorziato. Alla domanda ovvia del frate che le chiede di rinunciare a questo proposito contro l'indissolubilità del matrimonio la signorina risponde un chiaro e secco "no". E se ne va inveendo contro la Chiesa retrograda e che "fa schifo", perchè non solo non ammette i divorziati risposati alla comunione ("cosa inconcepibile al giorno d'oggi" - afferma la signorina), ma addirittura giudica le intenzioni. E mentre ammette omicidi e mafiosi alla confessione e all'assoluzione, rifiuta già i sacramenti a chi "solo" esprime l'intenzione di sposare un divorziato.

La coscienza di questa penitente non distingue prima di tutto fra: A) peccato commesso e B) peccato che si può e si deve evitare.

Secondariamente non distingue tra: A) peccatore pentito del male fatto e che non può riparare del tutto (pensiamo ad un omicida che non può risuscitare il morto, ma ha comunque bisogno del sacramento) e B) "giusto" che vuole peccare deliberatamente (e quindi, per logica, non solo non è pentito, ma vuole commettere un peccato, nonostante sappia che è peccato).

Anzi, direi di più, lo sfogo della signorina in questione mostra come non si comprenda in radice la differenza tra reato e peccato. Il reato deve ovviamente essere consumato per poter esser poi sanzionato, ma il peccato è commesso già con l'intenzione di farlo e con il non voler cambiarla. E quindi perseverando in una situazione di peccato non si può essere assolti. Nel caso in esame, tra l'altro, il confessore cercava di dissuadere la "penitente" (in-penitente) a non commettere adulterio. Ma essa perseverando nella sua decisione legava le mani al confessore, che avrebbe fatto malissimo ad agire diversamente.

Noi, poi, non sappiamo cosa abbia detto o abbia saputo in più il confessore, il quale essendo tenuto al sigillo sacramentale non ha parlato direttamente, ma attraverso il suo superiore e in linea generica, cioè su quanto già di pubblico dominio per via delle esternazioni della signorina. Ricordiamo, infatti, che un confessore non può e non deve difendersi da accuse del genere se non ricordando ciò che dice la Chiesa e senza mai scendere nei particolari del caso che non deve per nessuna ragione rivelare.

Per questo, ancora di più, approvo l'attento operato del superiore p. Marco e la discrezione dei Frati di Treviso, e mi rattristo di questa spettacolarizzazione di un singolo caso. Speriamo solo che tutto questo clamore faccia riflettere la "nubenda", la faccia desistere e tornare alla santa Madre Chiesa, che non giudica nessuno, ma non può permettere che una sua figlia cada nel peccato senza cercare in ogni modo di fermarla.

Testo preso da: La differenza fra "reato" e "peccato" e il valore dell'intenzione di non peccare per ricevere l'assoluzione
http://www.cantualeantonianum.com

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