mercoledì 27 febbraio 2013

abdicazione del papa

Descendit…



Nel cristianesimo si ha un primato del Logos, della Parola, sul silenzio: Dio ha effettivamente parlato. Ma non dobbiamo per questo dimenticare la verità del perenne nascondimento di Dio. Solo allorché l’abbiamo sperimentato come solenne Silenzio, possiamo sperare di percepire anche la sua Parola, che sgorga avvolta nel tacito mistero. La cristologia procede oltre la croce, che è il momento percettibile dell’amor divino, per tuffarsi nella morte, nel silenzio e nell’obnubilamento di Dio. Possiamo allora meravigliarci, se la chiesa, la vita stessa del singolo, vengono continuamente trascinate in quest’ora del silenzio, nel dimenticato e accantonato articolo ‘Discese all’inferno’? “.

Così scriveva Joseph Ratzinger nella sua “Introduzione al Cristianesimo”. Nei tempi più recenti, egli è stato uno dei pochi teologi che sia confrontato con questo articolo di fede “lontano ed ostico alla nostra coscienza odierna”.
Adesso questa affermazione del Credo appare quanto mai opportuna per tentare di comprendere le ragioni delle dimissioni di Benedetto XVI. Non si vuole forzare il suo pensiero, e nemmeno trovare a tutti i costi una spiegazione. Tuttavia dobbiamo tentare di capire quel gesto, assolutamente libero, che egli ha voluto compiere per il bene della Chiesa. Ce lo impone la coscienza di cattolici. Ce lo impongono quelle ricostruzioni, spesso farneticanti, che in questi giorni si propongono in un terreno fatto di incertezze, se non proprio di autentica ignoranza in materia di fede. Ce lo impongono le letture fuorvianti che vengono da un mondo laico sempre attento a trarre indicazioni utili per la vita di una Chiesa che considera un ostacolo al progresso della società. Anche la nostra, sia chiaro, è soltanto una lettura. Un tentativo di dire qualcosa che abbia a che fare con la vita e non con la morte.

L’approccio di Ratzinger al tema della discesa agli inferi ha il pregio di spiegare l’articolo con la preghiera di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato?” (cf. Mc 15,34; Mt 27,46). Se gli inferi rappresentano la condizione estrema dell’abbandono, la preghiera riempie di luce anche quella discesa che farà seguito alla sua morte ormai prossima. Scrive il nostro autore: “ In questa estrema preghiera di Gesù, come del resto anche nella scena dell’orto degli ulivi, il nucleo più profondo della sua Passione non sembra essere qualche dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono“.
E’ evidente, dunque, che in questa prospettiva Ratzinger intende parlare della condivisione da parte di Cristo della situazione di abbandono che l’uomo sperimenta nella morte. Ciò equivale a dire che l’uomo, ogni qual volta sperimenta la solitudine e l’abbandono, viene condotto in quella sofferenza e in quel sacrificio supremo da cui la Vita si afferma con la potenza della Risurrezione. Qui dobbiamo anche situare la prostrazione che si avverte quando viene meno il vigore del corpo e dell’animo. Nel Papa, come in qualsiasi cristiano.
Il Papa è però un cristiano espropriato di se stesso per il singolare compito al quale è stato chiamato. Si può collocare il ministero petrino in questa profondità tanto impenetrabile del mistero pasquale? In altri termini: può il nostro tentativo superare i limiti angusti delle congetture?
Ci aiuta lo stesso Cardinale Ratzinger, che in modo magistrale ha descritto il rapporto tra i due elementi nell’omelia della messa esequiale di Giovanni Paolo II, l’8 aprile 2005. In quell’occasione egli scandì più volte l’invito del Risorto a Pietro: “Seguimi” (cf. Gv 21,22). Tutta la vita del papa venuto da lontano, veniva compresa alla luce di quell’invito.
Citando il titolo di un testo di Giovanni Paolo II, il cardinale commentava: ” “Alzatevi, andiamo!” – con queste parole ci ha risvegliato da una fede stanca, dal sonno dei discepoli di ieri e di oggi. “Alzatevi, andiamo!” dice anche oggi a noi. Il Santo Padre è stato poi sacerdote fino in fondo, perché ha offerto la sua vita a Dio per le sue pecore e per l’intera famiglia umana, in una donazione quotidiana al servizio della Chiesa e soprattutto nelle difficili prove degli ultimi mesi. Così è diventato una sola cosa con Cristo, il buon pastore che ama le sue pecore. E infine “rimanete nel mio amore”: Il Papa che ha cercato l’incontro con tutti, che ha avuto una capacità di perdono e di apertura del cuore per tutti, ci dice, anche oggi, con queste parole del Signore: Dimorando nell’amore di Cristo impariamo, alla scuola di Cristo, l’arte del vero amore”.
Fin qui le parole riferite, in senso stretto, a Giovanni Paolo II. Ad esse fanno seguito poi quelle rigurdanti il ministero di Pietro: “Seguimi! Insieme al mandato di pascere il suo gregge, Cristo annunciò a Pietro il suo martirio. Con questa parola conclusiva e riassuntiva del dialogo sull’amore e sul mandato di pastore universale, il Signore richiama un altro dialogo, tenuto nel contesto dell’ultima cena. Qui Gesù aveva detto: “Dove vado io voi non potete venire”. Disse Pietro: “Signore, dove vai?”. Gli rispose Gesù: “Dove io vado per ora tu non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi” (Gv 13, 33.36). Gesù dalla cena va alla croce, va alla risurrezione – entra nel mistero pasquale; Pietro ancora non lo può seguire. Adesso – dopo la risurrezione – è venuto questo momento, questo “più tardi”. Pascendo il gregge di Cristo, Pietro entra nel mistero pasquale, va verso la croce e la risurrezione. Il Signore lo dice con queste parole, “… quando eri più giovane… andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21, 18)”.
Pietro va dunque verso la croce e la risurrezione. Ma tra la croce e la risurrezione, vi è anche il mistero tremendo della discesa agli inferi.
In questo percorso Benedetto XVI ha scelto adesso, per il bene della Chiesa, la dimensione del Sabato Santo. In questo giorno, che noi associamo al silenzio, in realtà risuona la Parola, come scrive Pietro: “Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito. E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione” (1Pt 3,18-19). La gloria della risurrezione è mostrata in anticipo in quel luogo di morte.

Il Papa ha scelto di essere nascosto in Cristo in questa dimensione di apparente non senso, di nascondimento che prepara l’annunzio. Parlerà ancora, ma in modo diverso, insolito, forse necessario di fronte ai cristiani storditi dal sonno. Parlerà a partire dall’eloquenza del gesto, perché a lui è stato chiesto di seguire il Signore fin dentro questo mistero di conformazione radicale, che ci interpella tutti. Nessuna contrapposizione con il predecessore. Entrambi calati, come tutti i successori di Pietro, nel mistero della morte e della risurrezione. Uno sulla croce, l’altro nell’epilogo della croce prima che il seme, morto nel cuore della terra, porti il frutto della salvezza. Anche la Chiesa dev’essere trascinata in questo silenzio. Soprattutto nel momento in cui molteplici lusinghe tentano di trasformare la sua missione di salvezza in un servizio mondano.
La giovane carmelitana di Lisieux aveva esclamato con gioia di voler essere l’amore nel cuore della Chiesa. L’anziano successore di Pietro canta il suo “Nunc dimittis” per posare il cuore stanco accanto al Cuore trafitto da cui la Chiesa trae la sua vita. Agli inizi del pontificato aveva ricordato, proprio a noi italiani, la grande legge della vita nuova: “Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza”. In questo inserimento, ora spinto fino alla conformazione massima, il silenzio produrrà frutti di grazia per il prossimo Vicario di Cristo, per la Sposa, per noi, che forse abbiamo giocato con la fede e con la Chiesa come i bambini di una volta con il Monopoli. Abbiamo pensato che fossero nostre, e perciò manipolabili. Ed invece ci sono state donate, ci precedono, ci garantiscono in qual modo noi possiamo andare dalla morte alla Risurrezione.
Questa non è soltanto l’ultima lezione del Papa teologo. E’ anche la più grande!

don Antonio Ucciardo

Nessun commento:

Posta un commento