lunedì 25 novembre 2013

concilio e liturgia

... e poi apri internet e leggi l'ultima

di Andrea Grillo: 

e ti cascano le ... braccia.


il guaio è che questi fanno scuola, 

e una balla ripetuta cento volte 

finisce per diventare verità nelle menti ignoranti! 

C'è dentro tutto il luogocomunismo conciliare più 

rivoltante.

E con l'omelia del Papa del 18 novembre come la mettiamo?




All’inizio del Concilio, la liturgia.


Quando i Padri conciliari votarono il primo documento del Concilio, la Costituzione sulla Sacra Liturgia - che poi prese il nome “generico” ma profetico di “Sacrosanctum Concilium” - forse non immaginavano che, per buona parte, il Concilio si sarebbe identificato con la “nuova liturgia” e che la “nuova liturgia” avrebbe immediatamente annunciato e realizzato il Concilio.
Certo, in tutto ciò vi fu qualche piccola esagerazione, una profezia che si pensava immediatamente realizzata e realizzabile, qualcosa di troppo diretto e immediato, qualche volta persino di semplicistico; ma una cosa apparve subito assai chiara: il Concilio Vaticano II, nel suo disegno “pastorale”, voleva essere un servizio alla tradizione per assicurare continuità alla vita cristiana, mediante un suo “incremento”, un suo “aggiornamento”, un suo “nutrimento”. E la Riforma Liturgica fu, effettivamente, il primo grande frutto di questo Concilio.
Tutto ciò oggi può e deve essere considerato dall’angolo visuale di quel “trapasso” ecclesiale ed istituzionale, che si è aperto poco più di un anno fa, con l’inizio dell’Anno della fede, e al cui interno – contro alcune intenzioni normalizzatrici, che avrebbero preteso di sottoporre l’ermeneutica del Vaticano II a quella del Coatechismo della Chiesa Cattolica! - abbiamo visto, in sequenza, diversi fatti di profezia: la evidente difficoltà con cui papa Benedetto poteva collocare se stesso nel clima festivo dell’anniversario conciliare, a partire dall’11 ottobre 2012 , fin dai discorsi della mattina (l’ omelia) e ancor più della sera di quel giorno (la replica del “discorso della luna”!); la rinuncia al ministero petrino, esattamente quattro mesi dopo, l’11 febbraio del 2013; a distanza di un altro mese, la elezione di papa Francesco (Francesco!), il 13 marzo 2013; l’inizio di una sorprendente “pratica conciliare” da parte del nuovo papa, con la continua sottolineatura della collegialità, del primato delle periferie, della “chiesa povera”, e con la concelebrazione e predicazione quotidiana a S. Marta, luogo dove il nuovo papa ha sorprendentemente trasferito la sua residenza.
Questa novità insperata è oggi divenuto “criterio ermeneutico” per SC, contro ogni tentazione “letteralista”. Ed è già stata in grado di liberare il testo della Costituzione liturgica da quello strato di “inutili esitazioni” che si era venuto accumulando negli ultimi anni, per un eccesso di indecisioni e di ripensamenti, per mancanza di discernimento o di determinazione, con un misto di nostalgia e di disperazione, di amnesia e di presunzione. La dichiarazione sulla “irreversibilità” delle acquisizioni conciliari  in materia di “liturgia”– pronunciata di recente da papa Francesco nel corso di una intervista alla rivista “Civiltà Cattolica” - ha messo subito in secondo piano quella diatriba sulla “continuità” e la “discontinuità” che aveva lungamente pregiudicato - e spesso del tutto paralizzato - ogni efficace ermeneutica della liturgia secondo il Concilio Vaticano II.

“Sacrosanctum Concilium” e lo stile conciliare

Nel mutamento delle forme rituali, in effetti, il Concilio aveva prefigurato, forse nel modo più lineare e coerente, una cristologia e una ecclesiologia più fedele al “depositum” della tradizione. Nel configurare una Chiesa diversa da un “museo da coservare”, e più simile a “giardino da coltivare”, il culto era appunto la prima forma di questo nuovo compito di “coltivazione” e di “cultura”. Dal ritus servandus al ritus celebrandus era il passaggio in gioco.
Ma questo grande disegno, che risulta chiaramente dal testo di SC, aveva diverse impegnative condizioni. Anzitutto poteva venire da un Concilio che Giovanni XXIII aveva inteso come “pastorale”. Parallelamente alla resistenza sulla liturgia, gli ultimi due decenni hanno conosciuto una progressiva difficoltà ad entrare nella “mens” di questa idea di Concilio. Anche la sua nota “pastorale” è passata dall’indicare il primato di “ciò che nutre e incrementa la tradizione”, ad individuare, con maggiore tranquillità ma anche con profezia scarsa o nulla addirittura, una disciplina che garantisca la tradizione: in qualche modo, abbiamo assistito al tentativo di tornare al Concilio non come evento, ma come atto di governo.
Ciò ha avuto, immediatamente, e specialmente in liturgia,  una ricaduta molto evidente: mentre il Concilio si era appassionato nel restituirci il primato dell’uso dei riti – dei loro linguaggi, della loro pluralità, della loro capacità evocativa e formativa, della loro forza istituzionale e di identità – gli ultimi vent’anni hanno visto crescere la tentazione di considerare primario il tema degli “abusi”. Come se, combattendo risolutamente gli abusi, si potesse garantire l’uso dei riti cristiani. La profezia conciliare, per questo pienamente pastorale, aveva invece individuato bene la impossibilità di recuperare la verità dell’uso del rito cristiano per via disciplinare, semplicemente combattendo gl abusi: questa scelta, d’altra parte, era stata coerente con il primato attribuito al magistero positivo (della Costituzioni) rispetto al magistero negativo (dei canoni di condanna). 

Il cuore della Costituzione liturgica

Se, dunque, al centro di SC si colloca questa grande e ambiziosa svolta pastorale, cerchiamo a comprenderne di nuovo la forza e l’obiettivo. Per farlo dobbiamo anzitutto sgombrare il campo da un equivoco: è facile ritenere che SC sia identificato come il testo “della Riforma Liturgica”. Tuttavia, quando pensiamo così, tendiamo a confondere il mezzo con il fine. Il fine di SC non era e non è la Riforma Liturgica. Il fine è il superamento di un modo inadeguato di partecipazione al mistero celebrato, che ne altera la natura. Del mistero celebrato fa parte la assemblea che lo celebra.  Questa verità sulla Pasqua di Cristo, che attraversa tutta la liturgia, ha bisogno di una partecipazione di tutti i soggetti battezzati, i quali, per ritus et preces, ossia mediante i riti e le preghiera,  prendono parte e si riconoscono parte del mistero che celebrano.
La “actuosa participatio” è il nuovo paradigma partecipativo, nel quale alla medesima azione rituale, una per tutti, a diverso titolo prendono parte tutti i membri della assemblea: chi presiede, i diversi ministri e il popolo radunato. Per conseguire questo obiettivo – che non è solo o anzitutto liturgico, ma è cristologico e ecclesiologico, pastorale e spirituale – occorreva rimuovere una serie di ostacoli testuali e contestuali (preghiere e riti), mediante un  accuratissimo lavoro di Riforma, che appare, così, lo strumento articolato e complesso per predisporre la Chiesa a restituire la parola alla sua tradizione rituale. La Riforma Liturgica è così il mezzo per tornare ad una forma di partecipazione che i secoli avevano visto declinare e quasi scomparire dall’esperienza ecclesiale. La sana tradizione può essere garantita soltanto da un legittimo progresso. Il quale comporta, necessariamente, una serie di grandi discontinuità.

La recezione della Riforma e la tentazione di resistervi

La prima discontinuità, quella più lampante, è rappresentata dai “nuovi ordines”, i nuovi rituali, che sono stati composti nei primi 20 anni successivi al Concilio. Una nuova ministerialità, una più grande ricchezza biblica, una accessibilità diretta nella “lingua vernacola”, una strutturazione delle sequenze più limpida e una riduzione puntuale di tutte le “incrostazioni” di stampo prettamente clericale hanno garantito alla Chiesa una serie di rituali adeguati al nuovo paradigma ecclesiale e liturgico.
Cionondimeno, la seconda discontinuità, quella decisiva, è rimasta come oscurata dalla prima. Le splendide novità dei libri, con le prassi che le hanno accompagnate (e gli “altari girati”) hanno come soffocato l’altra discontinuità, quasi bloccandone la diffusione. Si tratta, come è ovvio, della attivazione concreta del nuovo paradigma partecipativo, che trova nei nuovi riti una condizione di possibilità, ma non la propria realtà. A entrambe queste “discontinuità” corrispondono le “sfide” che oggi attendono il testo di SC.
La prima sfida è quella di chi contesta la necessità della Riforma. La seconda è quella di coloro che, al contrario”, affermano la sufficienza della Riforma.

Le due sfide: la non necessità e la non sufficienza

Non bisogna lasciar cadere nessuna delle due sfide, oggi, ma occorre come “riconvertirle” e “ricalibrarle” reciprocamente: alla sfida della non necessità può rispondere compiutamente soltanto la risposta alla sfida della non sufficienza. In altri termini, alle lacune del Novus Ordo non si può rispondere “su un altro tavolo”, introducendo un pericoloso e illusorio parallelismo rituale, ma soltanto riaprendo il dibattito serio sul rito “irreversibile”, che deve riscoprire la propria forma e l’ars celebrandi. 
La “forma rituale” da riscoprire e l’ ars celebrandi da attivare sono oggi l’unica risposta possibile e auspicabile alle due sfide, uscendo così dallo sterile conflitto tra continuità e discontinuità, e accettando la prospettiva della irreversibilità. 

La liturgia e la “sollicitudo” per le periferie

In questo nostro frangente, appare in una luce nuova come il testo di SC,  impostando un nuovo “paradigma di partecipazione alla liturgia” – in vista  del quale è stata realizzata la Riforma Liturgica – ha delineato una diversa esperienza ecclesiale e spirituale, un modo diverso di stare “nella Chiesa” e “nel mondo”. Tale mutamento, tuttavia, rinuncia al semplicismo delle “vie brevi”, proprio mediante il gesto profetico con cui si annuncia che la intelligenza dei riti è decisiva per “tutta l’azione della Chiesa”, e che, anzi, ne costituisce il “culmen et fons”. Tale intelligenza avviene, appunto, “per ritus et preces”. Potremmo dire che la “sollicitudo” della Chiesa per la “res socialis”, risuonata alla fine del XIX secolo con il rullo di tamburi della Rerum novarum, acquista a partire da Sacrosanctum Concilium un orizzonte più maturo: diventa consapevole che le “res novae” passano, inevitabilmente,  attraverso una modalità di partecipazione al “culmine” e alla “fonte” dell’agire ecclesiale, nel quale tutti i battezzati, all’interno dell’ assemblea che celebra, fanno l’esperienza di grazia secondo cui, nella lotta tra i diritti e i doveri, che riguarda ogni generazione nel cammino della storia, la forza della tradizione fa esperienza di un dono, che parola e sacramento ri-presentano nel modo più originario e più ricco, senza riduzioni e senza funzionalizzazioni.  All’ambizione “pastorale” del Concilio Vaticano II corrisponde una Chiesa che, per vivere la pienezza della propria “vocazione sociale” verso le periferie, sa sempre iniziare e finire sul livello simbolico della azione rituale, così interpretando profeticamente e sacerdotalmente la condizione storica della propria regalità.

Papa Francesco e la liberazione della liturgia dal “conflitto di interpretazioni”

Dicevo, iniziando questa riflessione, che la Costituzione SC ha trovato, negli ultimi mesi di storia della Chiesa (e primi mesi del papato di Francesco) un nuovo criterio ermeneutico.  Il primo segnale è stato il “concilio liturgico” attuato nella “pratica quotidiana di papa Francesco”, fin dal suo primo apparire sulla piazza. Se poi ogni mattina papa Francesco, a S. Marta, concelebra e tiene l’omelia, dimostra con questa sua prassi di essere - pienamente e irreversibilmente -  “figlio del Concilio”: è il primo papa figlio (e non padre) del Concilio!
Il secondo segno è invece la liberazione della liturgia da un conflitto di interpertazione sistematicamente alimentato dall’alto. Negli ultimi 15 anni avevamo assistito a uno stillicidio di posizioni, documenti, pareri, commissioni, sussurri, grida e illazioni, che alimentavano sfiducia, e inducevano stasi. Ora, invece, si va oltre: non solo oltre Pio V, ma anche oltre le dialettiche infinite (e sfinite) tra continuità e discontinuità, oltre le forme di liturgia autoreferenziala. E compare, alla fine, un’altra parola, caduta nel dimenticatoio: irreversibilità.
Detto schiettamente, da papa Francesco, nella intervista a “Civiltà Cattolica”:

“ «Il Vaticano II è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi.
Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile.”

Per l’ermeneutica del Concilio liturgico, proprio nel suo anno anniversario, si tratta di una “dichiarazione d’amore” che non è esagerato considerare di portata storica.  

http://grilloroma.blogspot.it/2013/11/sacrosanctum-concilium-50-anni-dopo.html

1 commento:

  1. Secondo me, il fatto stesso che papa francesco abbia voluto/dovuto dichiarare pubblicamente che la riforma liturgica deve considerarsi irreversibile, è un'implicita denuncia che la cosa non è data per scontata da tutti, quantomeno esistono nella Chiesa posizioni diverse e non esiste un accordo generale. In parole povere, le ricorrenti dichiarazioni in tal senso di esponenti della gerarchia e di accademici vari tra cui Grillo denunciano il sentore che possa esserci il rischio di un ritorno al passato. Comunque, il riequilibrio tra vecchio e nuovo rito sancito da Benedetto XVI con una legge universale (questa sì definitiva) e la sostanziale equiparazione dei due riti, che sono chiamati a convivere in serenità, dimostrano l'esatto contrario di ciò che lasciano credere Francesco e Grillo: la riforma liturgica non è irreversibile, anzi: la reintroduzione della forma antica, che sta conoscendo una veloce diffusione (soprattutto tra i giovani sacerdoti e negli ordini religiosi) segna il passo alla presunta irreversibilità e unicità del rito riformato, che è chiamato, al contrario, ad essere arricchito dal rito classico.

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