venerdì 21 marzo 2014

tu chiamale, se vuoi, emozioni

I limiti del cuore

No a una fede sentimentale.

Il capo del Sant’Uffizio esprime con parole chiare

un manifesto per l’alleanza di fede e ragione




Pubblichiamo ampi stralci della lectio magistralis tenuta da mons. Gerhard Ludwig Müller, prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico 2013-2014 della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, a Milano.
Discernimento, storia e speranza sono il primo ed elementare contributo che la fede – anzitutto attraverso la prassi di una vita che la testimonia e quindi anche attraverso la riflessione di una teologia che ne rileva puntualmente i tratti essenziali – è chiamata a offrire al mondo, per risollevare le sorti di un’umanità sempre più povera di legami, di senso e di fiducia.
Qui la teologia può dare molto al saeculum, sempre più “breve”, da cui veniamo e in cui ci troviamo ancora. Qui avvertiamo anche l’importanza dell’esercizio di una ragione che sia insieme umile e forte, che la teologia può testimoniare come occasione positiva per ritrovare un ragionevole orientamento nella complessità della realtà. Non ci può essere infatti un reale discernimento senza una ragione che sia certa di trovare la verità – in modo non conclusivo, mai esausto, né in via concordistica o ideologica – scommettendo fino in fondo sulla libertà dell’uomo e sulle sue risorse, quando sono sanate ed elevate.
E non ci può essere progresso reale per l’uomo se non diviene certo di poter attingere a significati che eccedano quelli offerti dalle scienze cosiddette “esatte”. Non si possono liberare energie e dinamiche efficaci in vista di un cambiamento se non vi è la fiducia per guardare con speranza al futuro che ci attende. E non vi può essere speranza senza certezza di rinvenire – anche qui con modalità certe e nello stesso tempo relativamente riformulabili sul fronte rivelato – il bene. Da qui, esistenzialmente, possiamo cogliere quasi empirica-mente quanto il legame libertà-verità / bene sia indissolubilmente connesso con il binomio speranza-dynamis: queste stanno o cadono insieme.
Pensiamo a quanto tutto ciò diviene concreto sullo sfondo di quella crisi che da tempo ci attanaglia: una crisi antropologica prima ancora che economica e finanziaria. Una crisi che esige risposte radicali, di quella radicalità che solo un profondo cambiamento dell’humanum può ottenere. Una crisi che attende una svolta culturale e noetica prima ancora che di strutture e di costumi.
A tal riguardo, proprio l’esperienza dell’umano che ci è offerta nel contesto ecclesiale – laddove esso è vissuto autenticamente – ci mostra come ogni riforma che non cominci dal nous dell’uomo è destinata a raccogliere e alimentare disillusioni e scetticismo sul versante etico. Pensiamo a tante proposte di riforme strutturali che oggi sentiamo, le quali – pur necessarie e proficue se comprese nella loro natura accessoria e penultima – non ottengono mai un cambiamento decisivo, poiché limitarsi al mutamento delle strutture – retaggio in fondo di ideologie sociali ormai datate e superate dalla storia – non attinge mai ai fondamenti ultimi dell’uomo: e se il cambiamento non arriva lì, non arriverà mai.
A questo punto, vorrei soffermarmi brevemente anche su qualche altra istanza odierna, da cui non possiamo non sentirci interpellati.
Anzitutto, la cosiddetta “società plurale” nella quale sempre più viviamo: una società multietnica, multiculturale, multireligiosa, multicontestuale. Questa pluralità dei contesti e dei soggetti esige – anche qui, chi vi guida, da tempo e con efficace sintesi lo rimarca – che il nostro lavoro sia espresso con un linguaggio sempre meno iniziatico e autoreferenziale. E’ purtroppo il vezzo di molti nostri ambienti accademici, formulare il proprio sapere con un linguaggio e codici eccessivamente, anche se non sempre necessariamente, criptici. Da una parte vi è l’esigenza di un rigore linguistico e di una profondità nell’esprimere contenuti complessi, che non possono eccedere nel semplificare, pena l’impoverimento dei contenuti. Dall’altra vi è però anche la necessità di saper comunicare e tradurre, senza tradire, il dato teologico secondo coordinate il più accessibili alla cultura e ai soggetti con cui viviamo, pena l’erigere muri di estraneità invece che creare prossimità – la qual cosa ci ha richiamato con forza e più volte Papa Francesco.
In questo senso, ritengo che un esempio insuperato e ancora tutto da valorizzare nella sua portata è il pensiero di Benedetto XVI, il cui magistero è un luminoso riferimento anche per come ha saputo coniugare profondità di pensiero e semplicità di linguaggio.
La questione del “pluralismo” culturale in cui siamo immersi rappresenta indubbiamente una stimolante sfida per il “dirsi” della fede in modo comprensibile anche ad ambiti distanti dai nostri per retroterra e premesse di pensiero e di costumi. Con fiducia affrontiamo questa provocazione che ci costringe a praticare terreni non facili con l’umiltà di chi sa di dover procedere con cautela e di dover osare nello stesso tempo. A questo proposito, il rigore critico della teologia deve anzitutto sgomberare il campo dalla superficialità di chi si lascia assecondare dai luoghi comuni creati dalla pressione dei media e di mentalità non compatibili coi contenuti autentici della fede: pensiamo a quanta leggerez-za nel teologare intorno a temi come il sacerdozio femminile, l’autorità nella Chiesa, l’accesso ai sacramenti da parte di chi non è in piena comunione con la Chiesa…
E, guarda caso, quanti applausi da parte dei media nei confronti di certi teologi e di opinioni teologiche non radicate fino in fondo con i capisaldi dottrinali della fede. In tal senso, attorno a certi temi, vi è oggi più che mai il rischio di una deriva sentimentale della fede, anche a livello di espressione teologica. Logos e Agape, che sono inseparabili coordinate dell’essere umano nel mondo, vengono sovente contrapposti, e spesso un amore male inteso viene utilizzato per offuscare, se non oscurare, la verità.
Perciò, i pur giusti richiami alla gerarchia delle verità, alla necessaria pluriformità che la stessa natura “cattolica” della Chiesa esige, all’unità da ricercare soprattutto intorno agli elementi essenziali della fede, alla libertà del pensare – intesa non come un pretesto per una inaccettabile autonomia – non tolgono che, a questo riguardo, ogni discorso rischia di essere vano se non mette a fuoco una questione previa: quella del sensus fidei e del sensus fidelium in Ecclesia.
Tutti noi comprendiamo che ogni dibattito, nella Chiesa evita la sterilità e diviene fecondo solo se avviene all’interno di un autentico senso della fede, che non può mai esser dato per scontato. In tal senso, ogni protagonista che voglia essere tale, all’interno dei legittimi dibattiti teologici, deve in primo luogo autenticare le sue prese di posizione, specie se pretendono di porsi con accento di novità, testimoniando anzitutto una sostanziale fedeltà alla vivente trasmissione della fede apostolica, le cui fonti – Scrittura, Tradizione e Magistero – sono insuperabili e inaggirabili.
In tal senso, mai come altrove, a partire da qui comprendiamo che la teologia è una questione non di singoli – professori, pastori, gruppi di opinione – ma, in un senso profondo e davvero teologicamente caratterizzato, è questione “della Chiesa”, è affare di tutti e di tutti coloro che testimoniano un reale sensus fidei et Ecclesiae, poiché non vi è Chiesa senza fede apostolica e non vi è fede apostolica al di fuori dei luoghi che “fanno” la Chiesa.
Qui, insuperate e sempre attuali – poiché in esse vediamo in filigrana anche quanto è già accaduto in molti secoli di storia della Chiesa – paiono le parole di Karl Barth: “La teologia non è questione privata dei teologi e dei professori: per fortuna vi sono sempre stati dei pastori in grado di capirne di più in fatto di teologia che non la maggior parte dei professori. Ma non è neppure questione privata dei pastori: per fortuna ci sono stati singoli fedeli e talvolta intere Chiese capaci di adempiere la funzione teologica, tacitamente ma con energia, mentre i loro pastori, dal punto di vista teologico erano dei bambini o dei barbari. La teologia è una questione della Chiesa. Senza pastori e senza professori non si va avanti, ma il problema della teologia, la purezza del servizio ecclesiale, è posto a tutta la Chiesa”.
Tutto ciò mette al centro la questione della fede: e proprio questo ha voluto richiamarci Benedetto XVI indicendo l’Anno della fede. Perciò non vi può essere purezza di servizio ecclesiale senza una fede che sia integra nei suoi contenuti e integrale nella sua espressione. Non vi può essere servizio ecclesiale fecondo quando la fede non è fedele a se stessa, quando sceglie metodi che non rispettano la sua euristica fondamentale, o quando viene espressa omettendo o manomettendo, comunque sia, alcuni suoi elementi essenziali.
In tal senso, mai come oggi occorre una rinnovata riflessione intorno ai contorni autentici di sensus fidei, sensus fidelium, sensus Ecclesiae. Qui la teologia oggi può e deve dare molto. E non vi è chi non vede la scorrettezza e la miopia, a questo proposito, dell’impiego di tecniche di e-mailing per sondare indiscriminatamente nella rete, via internet, l’opinione dei più… Ben altri sono i forum e le agorà di cui necessita la Chiesa oggi per rinvenire ed esprimere, in modo genuino, quel sensus fidei da cui è, in ogni tempo, rinvigorita e ringiovanita.
L’aver sostituito l’opinione della rete ai luoghi propri del sensus fidelium rivela non solo un misunderstanding intorno a ciò che costituisce la Chiesa ma induce persino a pensare che nella formazione ecclesiale si ritengono, in fondo, più efficaci alcune tecniche di pressione politica piuttosto che i criteri mutuati dalla stessa fede. E anche di fronte a questo pericolo – che la politica conti più della fede anche nella Chiesa – la teologia ha oggi un compito profetico insostituibile. Si tratta di un compito oggi quanto mai profetico e “martiriale”, nel senso letterale di martyria…
A tal proposito, guardiamo anche a quale vasto campo di testimonianza si apre di fronte a noi, in un tempo in cui occorre aiutare molti nostri contemporanei, afflitti da un ormai cronico fraintendimento della libertà umana, che usa il lemma del gender per autoaffermarsi, a fare i conti con un inaggirabile sostrato che precostituisce ogni uomo. Il concetto di “natura”, infatti, rappresenta quel fondamento indisponibile senza cui l’uomo non riuscirebbe più a fissare, oltre i labili e volubili contorni delle maggioranze di ogni tempo, i confini non negoziabili della sua dignità e identità, e quindi dei suoi diritti e doveri. Una di-gnità e identità che sono “donati” all’uomo, che l’uomo è chiamato dapprima a riconoscere e poi ad attuare, e che nessuno può autofabbricarsi, pena lo smarrimento di quelle identità e dignità, e di un fraintendimento di quei diritti e doveri: ciò che appunto oggi è già accaduto e avviene.
Anche qui attendiamo dalla riflessione teologica un contributo insostituibile e che oggi esige anche un coraggio profetico di fronte ai continui tentativi di manipolare la natura, l’identità e la vita umana.
D’altronde, soltanto se l’uomo riesce a rinvenire fondamenti indisponibili ed incondizionati al suo stesso porsi nel mondo, può riuscire a creare un argine al dio profitto che tutto sembra dominare e tutti sembra attrarre, accantonando ogni forma di sapere che non sia funzionale a esso. Vi è infatti chi ha denunciato il pericolo che nell’immediato futuro si assista alla “produzione” – non si parla nemmeno più di “formazione”, ma questo è un punto cui vorrei accennare qui di seguito – di generazioni di uomini, i quali solo con grave difficoltà saranno in grado di discernere ciò che è umano e degno dell’uomo e ciò che non lo è .
In questo senso, nessuno come la Dottrina sociale ecclesiale può aiutare il diritto e l’economia a riconoscere l’originario legame di profitto e solidarietà, che il peccato tende a spezzare, e che una visione ritrovata dell’unità inscindibile di bene personale e comune permette di ricomporre. Bene comune e personale che, nell’ottica esigente e responsabilizzante della sussidiarietà, sono chiamati a operare in sinergia per salvaguardare la dignità e la tenuta del tessuto sociale. Sono questi solo dei richiami che, in via rapsodica, mi permetto di formulare, per tentare di aprire utili scorci al tema che mi avete affidato.
Vi è poi un’altra questione che vorrei sottoporre alla vostra attenzione. Vorrei partire qui da una semplice costatazione: mai come nella modernità si è sottolineata l’importanza e richiamata l’attenzione sul “soggetto”, sulla sua libertà, sulla sua autonomia, sul suo peso all’interno della gnoseologia… Eppure a cosa abbiamo assistito nella cosiddetta post modernità? A una sorta di oscuramento proprio del soggetto, a scapito di un’enfasi posta sui prodotti delle sue mani: l’uomo stesso si è reificato, è divenuto un oggetto e un prodotto del suo stesso agire. Anche il sapere ha perso il suo carattere profondamente “personale”, cioè la sua connotazione di comunicazione fra persone, per divenire una sorta di reificata veicolazione di dati.
Così oggi, nel mondo accademico e scientifico, si parla di “produzione del sapere”, si ritiene ancora che la scienza possa essere talmente oggettivata da essere quasi un prodotto da scambiare fra i soggetti indipendentemente dal loro stesso essere. Non è tuttavia ciò che realmente accade quando un sapere viene trasmesso. Infatti, ogni produzione e trasmissione di sapere non è mera comunicazione di dati, poiché esso è anche e inseparabilmente, lo si voglia e ammetta o no, una comunicazione assiologica, di valori, di visione dell’uomo e del mondo. Fra l’altro, quest’ultima è una comunicazione che non avviene senza conseguenze e non lascia indifferenti né chi comunica, né coloro a cui si comunica.
Pensiamo a quanto ciò, se assunto come un dato con cui fare davvero i conti, sia gravido di implicazioni, specie dal punto di vista educativo. Ciò, ad esempio, significa che non esiste forma di insegnamento che non sia contemporaneamente anche formazione. Un insegnamento che pretenda di essere scevro da esigenze formative, mente o perlomeno ignora ciò che avviene nel fenomeno così umano della comunicazione del sapere. Questa realtà va esplicitata e assunta responsabilmente fino in fondo. Concretamente, ciò significa che ogni docente deve assumersi con piena responsabilità quel processo con cui, trasmettendo una conoscenza comunica altresì un orizzonte di valori ai suoi discenti.
Questo fatto comporta che ogni insegnante, anche e specialmente in ambito accademico – contrariamente alla prassi comune e benché rappresenti un compito gravoso in tutti i sensi – non può disinteressarsi della formazione dei suoi allievi o considerare il suo insegnamento estraneo ad essa. Ecco perché non si può comunicare bene se, in fondo, non ci si fa carico di coloro a cui si comunica, cioè se non si “amano” i destinatari del nostro messaggio. La qual cosa, Papa Francesco in continuazione ci testimonia con la sua stessa persona e azione.
In tal senso, anche a questo livello, si avverte intorno noi uno smarrimento dei fondamenti che costituiscono l’umano. L’uomo oggi sa molte cose sui meccanismi biologici, psicologici e sociologici del suo comunicare ma – avendo perso i “contorni” dell’identità del suo “io” – ha perduto la consapevolezza di ciò che profondamente accade quando un “io” comunica con un altro “io”. Poiché la razionalità del Logos viene snobbata come subscientifica, si è smarrita la valenza culturale intrinseca della comunicazione umana. Anche qui, una ragione illuminata dalla fede è chiamata ad allargare gli orizzonti alla razionalità dei nostri contemporanei.
Ritengo perciò che l’appello formulato da Benedetto XVI e teso ad “allargare i confini della razionalità” sia ancora tutto da raccogliere, sondare e rilanciare. Ancora patiamo le conseguenze della gnoseologia e della “nuova scienza” moderne, le quali hanno ridotto – in buona sostanza, da Galileo e Cartesio in poi – la ragione alle sue facoltà analitiche, compromettendo così anche la sua congenita apertura al trascendente. Ma senza tale apertura, l’uomo perde anche il senso della sua profonda dignità e vocazione – come ci ricorda il Concilio Vaticano II (cfr. GS 21) – precludendosi la possibilità di conoscere il suo destino eterno. D’altronde, senza accogliere una tale apertura come un elemento essenziale e imprescindibile della sua ragione, l’uomo diventa estraneo anche alle dimensioni e alle ragioni che connotano indelebilmente il suo cuore – Bellezza, Verità, Giustizia – e che costituiscono la forza propulsiva ultima del suo agire. Senza comprendere tali dimensioni, non si comprenderà mai l’uomo nella portata del suo stesso essere e operare nel mondo. Qui la teologia ha ancora molto da dire e da offrire al pensiero contemporaneo.
Proprio a partire da qui, infatti, la Chiesa può rivelare efficacemente all’uomo come il dono di cui essa è portatrice – la vita nuova rivelata ed offerta da Dio in Cristo e nel Suo Spirito – non limita l’uomo e non guasta la sua gioia di vivere, ma amplia senza fine i suoi orizzonti e gli apre la prospettiva di una definitività, di un “per sempre” senza di cui ogni guadagno umano è illusorio e fallace.
Sono questi soltanto alcuni spunti che vorrei offrire alla vostra riflessione e sui quali sarebbe interessante aprire altresì un dibattito. Anche altre istanze del pensiero e dell’ethos contemporaneo interpellano la nostra fede, provocandola ad un apporto che sia rigorosamente critico e dialogante: in questa sede, intendo soltanto aprire degli spazi e porgere un convinto parere, nella speranza di offrire un piccolo contributo. E mi permetto di farlo proprio in nome di quella “paradossale cittadinanza” in cui siamo collocati dalla nostra peculiare identità di battezzati, di christi-fideles, di uomini ai quali, pur vivendo nella condizione di tutti, è donato di vivere “nella fede del Figlio di Dio” (cfr. Gal 2,20) che quotidianamente ci interpella, si offre a noi in dono e ci invia ai nostri contemporanei.
Il “paradosso” di questa cittadinanza è un tratto indelebile del nostro porci nel mondo e genera un movimento in cui le differenze non annullano le identità ma le rimettono continuamente in gioco, affinché queste siano purificate e ricomposte in un abbraccio “cattolico”, che accorcia distanze, genera reale prossimità e sa individuare strade per un’unità che non è mai al ribasso o a buon mercato. Proprio a questo livello ci è dato di cogliere il nesso inscindibile di fede e verità, un nesso che siamo chiamati a evidenziare in ogni passo del nostro lavoro di “teologi”. Laddove la fede è vissuta nella sua pienezza illumina sempre il mondo con la luce della verità.
Pellegrinaggio nella verità, non gioco intellettuale
Perciò consentitemi di concludere facendo mie alcune parole di Benedetto XVI, che sento quanto mai importanti e decisive per il nostro lavoro di teologi: “L’idea di verità e di intolleranza oggi sono quasi completamente fuse tra di loro, e così non osiamo più credere affatto alla verità o parlare della verità […] Nessuno può dire: ho la verità – questa è l’obiezione che si muove – e, giustamente, nessuno può avere la verità. E’ la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei, solo se siamo, con lei e in lei, pellegrini della verità, allora è in noi e per noi. Penso che dobbiamo imparare di nuovo questo “non-avere-la-verità”. E allora brillerà di nuovo: se essa stessa ci conduce e ci compenetra”.
Questo è il mio augurio e auspicio per ciascuno di noi: che la ricerca della verità rifugga ogni gioco intellettuale, incapace di compenetrare e dar forma alla vita, così che la luce della verità sia sempre sopra di noi e davanti a noi, e che – per immeritato dono dall’alto – essa possa conquistare la sua forza nel mondo anche attraverso di noi. Grazie.
di Gerhard L. Müller

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