sabato 8 novembre 2014

Fare l’amore

Fare l’amore non significa scopare

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Ero al bar e sentivo un pastore evangelico alla radio, che diceva:
«La fede, il cristianesimo non è una filosofia, non è un catechismo, non è un insieme di azioni da fare, non è un insieme di dottrine».
Andando per esclusione, cos’è allora?
«E’ l’amore di Dio, è farsi abbagliare dall’amore di Dio».
In poche parole, a quanto capisco: non è un cacchio. O per meglio dire: è la stessa cosa che sostengono i massoni liberal: Dio sta lassù in alto, ogni tanto guarda quaggiù irradiando amore, e stop. Ogni uomo prosegua con quel che stava facendo prima, senza fermarsi, senza interferire con Dio o accettarne interferenze: come se … Dio non ci fosse.
Ma cos’è l’amore allora? Questa parola abusatissima tanto da essere inflazionata e resa nulla nella sua potenza che trasforma il mondo? Per costoro non è nient’altro che un insieme più che di buoni sentimenti, di buone intenzioni, un coacervo di sentimentalismi frammisti a individualismi, pesche amorose, autoerotismi, egocentrismi, autogiustificazioni, quietismi. Anarchia, solitudine e belle parole: la santissima trimurti di questo mantra generale, la santificazione dell’andazzo occidentale.
L’amore per così come è inteso oggi è una magna cazzata, peggio: è un crimine contro Dio, se stessi, l’umanità. L’amore che lo facciamo sussistere ovunque come parola, non esiste come concetto, è una superstizione postmoderna, un tappo da piazzare ovunque per dire “vivi e lascia vivere”,  un nome da dare ai rapporti umani superficiali: una volta si diceva “fare l’amore” per intendere due ragazzi che stavano “facendo” nel senso di “costruendo” qualcosa, un pezzo dopo l’altro: stavano costruendo il loro affetto, la vita insieme, il futuro: due fidanzati, per le nostre nonne, erano due che “fanno l’amore”. Era un atto edificatorio, a lunga gittata, un progetto al quale si costruivano basi, perché un palazzo lo si costruisce dalle fondamenta non dal terzo piano.
541092_539189639466534_540346747_nOggi per “fare l’amore” non s’intende altro che scopare: e infatti leggiamo ovunque che i rapporti, i matrimoni andrebbero in crisi perché il ritmo sessuale delle coppie – che prevedrebbe chissà quali contorcimenti, posizioni tantriche, capriole da circensi – non corrisponde più, quanto a intensità durata e frequenza, a quello dello stato nascente di un amore, stato di grazia, parentesi di una vita, che un tempo andava sotto la dicitura di luna di miele. Oggi la “parentesi” è diventata la vita e quello che c’era dentro la parentesi, quello che  precedeva e seguiva la parentesi è messo a parte. Avvertendo come inaccettabile qualsiasi risvolto amaro, durezza, difficoltà nella vita come nella relazione,  si vorrebbe che tutto fosse una luna di miele infinita, in questo strisciante rinascente neognosticismo di massa che mentre divinizza il corpo, ne respinge la sua natura e i moti psicologici e fisiologici che lo governano. Ecco il cortocircuito che fa saltare tutto. La parentesi ha preso il posto del tutto. Questo è l’amore secondo il mondo.
Non meraviglia che genitori e figli non si parlano se non a patto di ratificare qualsiasi condotta di vita dei figli; che marito e moglie hanno matrimoni più brevi dei fidanzamenti non sopportando il mancato protrarsi della favola mondana della luna di miele permanente, e tutto finisce davanti all’avvocato divorzista. L’origine è questo equivoco: la Chiesa dovrebbe varare un nuovo dogma dove si fa proibizione in luogo consacrato di usare la parola “amore”, pena la scomunica latae sententiae.
Che c’entra Dio, l’affetto con tutto questo? Una beneamata mazza. Stiamoci attenti, oggi, quando parliamo di “amore” e subito dopo di Dio. Ci stiano attenti i papi e i preti, ed anche i pastori evangelici: tutto si dissolve nella mente eterodiretta dei più in un coito, in una eiaculazione precoce di sentimentalismi più o meno erotomani. In una bestemmia, in una cassazione del peccato contram de sextu.
Se vogliamo paragonare davvero l’amore divino a qualcosa che su questa terra gli somigli, ebbene, sono gli affetti umani, quelli veri. Che nulla hanno a che fare con l“amore” ossia con la pornografia della quale si è fatto ampio scialo in diretta tv anche al Sinodo, dove una sfilza di erotomani e pervertiti che si cornificavano a vicenda, sono stati presentati come modello di “amore cristiano” – e sono andati fino in Australia a cercarli, questi sporcaccioni – che avrebbe dovuto far riflettere i fedeli e i vescovi lì presenti: una telenovelas sudamericana (non a caso), praticamente, che inizia in rosa, prosegue noir, finisce a luci rosse. Nei giorni del Sinodo persino il cupolone michelangiolesco è sembrato un enorme condom calato sul vertice e sul centro della Cristianità a proteggersi dalla verità e dal buonsenso.
Gli affetti, dunque, non la malaria del sentimentalismo, non la pornografia dell’amore. Non le seghe. Gli affetti: per esempio quel che c’è tra madre e figlio, ci dovrebbe essere tra marito e moglie.
Ora proprio gli affetti ci dicono che sono composti da una serie di regole, di limiti da non oltrepassare, dal fare generosamente delle cose anche scomode gli uni per gli altri, fino al sacrificio estremo. Ecco, questo è l’amore. Parimenti l’amore di Dio. Altro non è questo non è quello, non è fare delle cose, non è un insieme di dottrine l’essere cristiani, come diceva il pastore evangelico succitato (così affine all’attuale vescovo). E invece no: il cristianesimo al pari dell’amore (quello vero, ossia l’affetto) è fare per l’altro tutto, anche l’impossibile, fino al sacrificio estremo. Così per Dio. Questo è l’amore per Dio: sapere delle cose, credere delle cose, e perciò fare delle cose.
http://www.qelsi.it/rubriche/antonio-margheriti-mastino/fare-lamore-non-significa-scopare/

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