martedì 11 novembre 2014

LITURGIA: UNA FESTA

I 40 ANNI DELLA COSTITUZIONE 
SULLA SACRA LITURGIA.

RETROSPETTIVA E PROSPETTIVA
dicembre 2003
Joseph Cardinal Ratzinger, Prefetto per la CdF
Accadde 40 anni fa
Fu un grande giorno per il Concilio Vaticano II e per la Chiesa in generale, quando, il 4 dicembre 1963, fu approvata quasi all'unanimità la Costituzione sulla Sacra Liturgia.
Il Concilio aveva preso delle decisioni di grande portata che, in seguito, avrebbero cambiato il volto della Chiesa in modo decisivo.
I Padri erano consapevoli che avevano messo a frutto una lunga storia precedente, avendo convogliato le varie tendenze, conoscenze ed esperienze maturate nel movimento liturgico in una visione complessiva destinata ad aprire un nuovo capitolo nella storia della liturgia.
Il testo stesso esprime così il nesso con la storia che lo precedeva: "L'interesse per l’incremento e il rinnovamento della liturgia è giustamente considerato come un segno dei provvidenziali disegni di Dio sul nostro tempo, come un passaggio (transitus) dello Spirito Santo nella sua Chiesa".
Il movimento liturgico dei secoli XIX e XX al quale queste parole fanno riferimento, viene dunque definito come provvidenziale disegno di Dio (dispositio) e come avvenimento pneumatico, come un nuovo passaggio dello Spirito Santo nella sua Chiesa. In effetti, nessun concilio può pretendere di creare qualcosa di nuovo: può soltanto dare forma definitiva e carattere vincolante a ciò che già sta maturando nella vita di fede della Chiesa.
Lo mostrano non solo i concili trinitari e cristologici della Chiesa antica, ma anche i concili teologi- co-sacramentali e ecclesiologici del Medio Evo e dell’epoca moderna.
Di conseguenza il compito dei concili non è di produrre qualcosa di mai conosciuto prima, ma di far emergere dalle tendenze di un determinato tempo ciò che è valido, ciò che scaturisce veramente dalla fede della Chiesa, per creare così unità e per determinare la direzione della via ancora da percorrere.
Questo nesso tra la maturazione del sensus fidei e l’autorità conciliare naturalmente fa anche sì che le affermazioni di un concilio portino l’impronta peculiare di un determinato tempo, che è quanto emerge chiaramente dai concili di tutti i periodi della storia della Chiesa: essi non parlano con parole sopratemporali, cosa che d'altronde non fa neanche la Sacra Scrittura, ma sintetizzano e danno forma a qualcosa che è cresciuto nel tempo, in modo tale che, con le parole di un determinato tempo, lo sguardo si apra oltre il tempo e sia detto qualcosa di permanentemente valido.
La Costituzione sulla Sacra Liturgia ha raccolto i vari torrenti e ruscelli del movimento liturgico unendoli in un unico grande fiume che "rallegra la città di Dio" (Salmo 46,5). Ma naturalmente rimangono anche vecchie acque che non sono potute entrare nel grande fiume, e nel grande fiume stesso si possono ancora riconoscere i vari fiumi che sono confluiti in esso.
Dalle acque, per così dire, si può giudicare da dove sono scaturite.
Sono anche restate tensioni all' interno, delle quali dobbiamo parlare: tensioni tra il desiderio di ritornare alla liturgia della Chiesa antica nella sua forma originaria e la necessità di collocare la liturgia nel presente; tensioni tra la conservazione e la creazione; tensioni tra il carattere di adorazione della liturgia e i suoi compiti catechetici e pastorali. Si tratta naturalmente di tensioni fondate, in fin dei conti, sulla natura stessa della liturgia e che non rispecchiano soltanto differenti tendenze del movimento liturgico.


Il Concilio ha tentato in tutti i modi di stabilire il giusto equilibrio interno tra questi aspetti diversi, ma nell’applicazione del mandato conciliare è potuto facilmente accadere che l'equilibrio del testo conciliare sia stato spostato unilateralmente in una certa direzione; proprio per questo è cosi importante ricordare sempre le autentiche formulazioni conciliari.
La disinvoltura con la quale quasi sempre si fa ricorso "al Concilio" per i propri desiderata tradisce il grande mandato che ci è stato lasciato in eredità dall’assemblea dei Padri.
C’è però un’altra particolarità della Costituzione liturgica che dobbiamo ricordare prima di impegnarci nell’analisi di uno dei suoi punti centrali.
In tutti i capitoli il testo si muove a due livelli diversi. Esso, relativamente ai diversi settori della realtà liturgica, da una parte sviluppa principi riguardanti la natura della liturgia e la sua celebrazione a livello fondamentale e generale; partendo da questi principi dà poi indicazioni normative per il rinnovamento della prassi della liturgia romana: queste indicazioni naturalmente non valgono per tutta la Chiesa, ma solo per la sua parte latina, e perciò sono anche più legate ad un tempo determinato di quanto non lo siano le affermazioni fondamentali.
Nella fase nuova della storia della liturgia che ha avuto inizio con il Concilio, si è aggiunto un terzo livello, e cioè quello delle riforme elaborate dal "Consiglio per l’applicazione della Costituzione liturgica", delle quali la più famosa è la nuova edizione del Messale romano, pubblicata per ordine di papa Paolo VI.
Queste forme di rinnovamento liturgico stabilite dall’autorità ecclesiastica sono vincolanti per la Chiesa odierna, ma non si identificano con il Concilio come tale, le cui indicazioni sono spesso così generali da permettere attuazioni diverse, seppure all’interno di una cornice comune.
Chi è del parere che non tutto in questa riforma sia riuscito, e che alcune cose siano modificabili o addirittura abbiano bisogno di una revisione, non è, però, per questo un nemico del "Concilio". 
Scopo di questa conferenza sarà ascoltare il Concilio e possibilmente far comprendere meglio alcune delle indicazioni essenziali contenute nel testo.
Naturalmente questo implica che il testo sia di nuovo "contestualizzato", per così dire, e cioè letto alla luce della storia dei suoi effetti e alla luce della nostra situazione attuale.
Siccome trattare questo tema in modo completo è assolutamente impossibile, vorrei innanzitutto illustrare la concezione fondamentale del culto e della liturgia che troviamo nella Costituzione, per poter poi soffermarmi su alcuni punti cruciali della sua idea di riforma - e cioè su concetti come comprensibilità, partecipazione, semplicità.
La definizione della natura della liturgia nel testo conciliare
Prima di tutto, dobbiamo cercare di capire bene quale è fondamentalmente la concezione che la Costituzione ha della liturgia.
"Nella liturgia, massimamente nel divino sacrificio dell’Eucaristia - così dice il testo - si attua l’opera della nostra redenzione.! [...] Essa contribuisce così in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa".
Poiché essa è l’attuarsi della redenzione, comunica la sua dinamica all’uomo - dal visibile all’invisibile, dall’attività alla contemplazione; dal presente verso la città futura a cui aspiriamo.
In Origene c’è una bella espressione: "Di fatto tutto è da oltre-passare (cfr Origene, Omelia 27 sul Libro dei Numeri,12 33-34).
Non ci si deve fermare in maniera definitiva presso nessun bene, finché non si sia arrivati a quel bene presso il quale si può rimanere per sempre.
Se nel Faust di Goethe, la tentazione per eccellenza sembra essere il desiderio del "rimani, sei così bella", vuol dire che in esso si è conservata viva quell'ultima conoscenza della dinamica dell’esistenza umana di cui parlano i Padri.
La liturgia - come viene mostrato dal Concilio - ci fa entrare in questa dinamica del "passare oltre", alla quale, con la sua teologia del sursum corda, sant’Agostino voleva far accedere gli ascoltatori delle sue prediche.
La liturgia ci porta fuori da ciò che è visibile, presente, comodo - verso la città futura.

Per descrivere positivamente l’essenza della liturgia, il Concilio non può accontentarsi di un concetto soltanto; ci mette davanti alcune delle grandi idee della tradizione biblica, che, nel loro insieme, dovrebbero accostarci a ciò che va oltre tutti i nostri concetti.
Vi troviamo il motivo della Chiesa come sposa - la liturgia è compimento del mistero coniugale tra Cristo e la Chiesa, è avvenimento nuziale, venuta dello sposo e cammino verso l’eterna festa dell'amore di Dio per la sua creatura, l’uomo.
Essa è avvenimento di alleanza, idea che, alla fine, anche se evidenzia altri aspetti, va nella stessa direzione, se abbiamo presente il Sinai come il grande modello per la conclusione delle alleanze e ci rendiamo conto che le parole di Gesù nell’Ultima Cena riprendono la tradizione sinaitica conducendola attraverso la promessa di Ger 31, verso la forma definitiva dell’alleanza.
Inoltre viene evidenziata la comprensione del carattere cosmico della liturgia, che abbraccia cielo e terra; essa, nella tradizione liturgica, si esprime, in modo quasi percepibile, alla fine del Prefazio e nel Sanctus come partecipazione dei fedeli al Trisagion dei serafini: "Nella liturgia terrena - così ci dice il Concilio - noi partecipiamo, pregustandola, [...] a quella celeste liturgia che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme [...]. Nella liturgia terrena noi cantiamo al Signore con tutte le schiere della milizia celeste".
Un’idea fondamentale del Concilio è infine il riferimento al mistero pasquale:
nella Pasqua si condensa l’intera storia della salvezza, è presente in forma concentrata l’intera "opera della redenzione".
Si può ben dire che la "Pasqua" costituisce la categoria centrale della teologia liturgica del Concilio.
Tutti gli altri aspetti sono riassunti in essa: Pasqua è il porsi e l’attuarsi dell’alleanza: Pasqua è nozze; Pasqua è "transitus" - è la dinamica del "passare oltre" per eccellenza, dalla vita alla morte, e dalla morte alla vita; dal mondo a Dio, dal visibile all’invisibile, dalle stazioni del tempo verso la città nuova, la Gerusalemme definitiva.


Per questo essa è anche abbattimento del muro che vuole dividere tempi e luoghi, cielo e terra; è l’incontrarsi di liturgia celeste e liturgia terrena: nel centro della liturgia celeste, cosi ci dice l'Apocalisse, c’è l’agnello immolato - la morte di Gesù sulla croce, che è avvenuta entro la storia e su questa terra e che adesso è diventata centro del cielo.
La croce di Gesù Cristo ha aperto il cielo, è il ponte che collega il tempo e l’eternità.
C’è da prendere in esame un ulteriore "oltre-passare“ che ha un'importanza fondamentale: per quanto il Concilio possa evidenziare la centralità della liturgia per l'esistenza cristiana e per la natura della Chiesa, non bisogna dimenticare che ci dice anche altrettanto chiaramente che essa non esaurisce tutta l’azione della Chiesa.
La liturgia deve sempre essere preceduta dall’annuncio che porta alla fede e alla conversione.
Ad essa devono sempre seguire le opere di carità, di pietà e di apostolato. Questo "passare oltre" è proprio nella natura stessa della Pasqua. Perché la morte di Gesù Cristo, dell’agnello immolato, per sua essenza, non è nient’altro che "amore fino alla fine" (Gv 13,1), che da Giovanni è stato chiamato il grande atto del "passare oltre".
Esso abbraccia il cosmo, i luoghi e i tempi di ogni uomo.
L’amore è la forza che unisce ciò che è separato, il tempo e l’eternità.
La croce, centro della liturgia celeste, non è eretta solo sulla terra, come abbiamo appena detto - è eretta anche fuori della città e del tempio (Ebr 13,12), e abbraccia anche il mondo di tutti i giorni, il mondo al di fuori del santuario.
Siccome nella rilettura delle tradizioni sacrificali dell'umanità donataci dalla croce, sacrificio e amore diventano identici, essa è nello stesso tempo liturgia suprema, e cioè conformazione dell’uomo a quel Dio che è amore e la più concreta realtà della vita di tutti i giorni .
Il Redentore lo si incontra nei più umili: in carcere, al capezzale, nelle case degli affamati e dei sofferenti [Mt 25).
L’auto-trascendimento di ciò che è puramente liturgico è iscritto nel cuore della liturgia cristiana e si realizza in forma del tutto concreta in coloro che vivono in modo più profondo e puro della partecipazione alla liturgia terrena-celeste.
A mio parere, la maggior parte dei problemi collegati all'applicazione concreta della riforma liturgica ha a che fare con il fatto che non è stato tenuto sufficientemente presente il peso dato dal Concilio alla Pasqua; ci si è attenuti troppo alle cose puramente pratiche rischiando di perdere di vista ciò che sta al centro.
Mi sembra perciò essenziale riprendere questo come metro di valutazione del rinnovamento e approfondire ulteriormente ciò che il Concilio poteva solo accennare. Pasqua significa inseparabilità di croce e resurrezione, così come sono presentate soprattutto nel Vangelo di Giovanni.
La croce sta al centro della liturgia cristiana, con tutta la serietà che comporta: un ottimismo banale che nega la sofferenza e l’ingiustizia nel mondo e riduce l'essere cristiani all'essere cortesi non ha nulla a che fare con la liturgia della croce. La redenzione è costata a Dio la sofferenza di Suo Figlio, la sua morte; e il suo "exercitium“ che, secondo il testo conciliare è la liturgia, non ci può essere senza la purificazione e la maturazione che vengono dalla sequela della croce.
Non si può "passare oltre“ senza il dolore della partenza, della rinuncia: Cristo ha preso su di sé la sofferenza del mondo per poterla guarire, e noi possiamo essere salvati e salvanti solo se siamo pronti a questa sequela della croce. Resurrezione significa che Dio ha donato riconciliazione e che noi. di conseguenza, possiamo essere salvanti solo in qualità di riconciliati e riconciliatori, e non partendo dallo spirito di contesa o persino dell’odio, ma soltanto nella partecipazione all’amore che va fino alla fine.
Questo è il vero ottimismo cristiano: credere e sapere che l’amore è vittorioso, proprio anche quando nel martirio soccombe.
Il prendere come metro di valutazione la Pasqua, però, ci fa vedere anche altri aspetti.
Morendo come agnello, Gesù è dentro la tradizione della Pasqua d’Israele, la interpreta nuovamente e così la conserva: neanche un iota andrà perduto (Mt 5,18).
I grandi fiumi dell’Antico Testamento confluiscono nella liturgia cristiana: questa profonda unità di Antico e Nuovo Testamento, l'unità dell’intera storia della salvezza, è da riscoprire.
Come è assolutamente impossibile capire il Nuovo Testamento senza l'Antico, così neanche la liturgia cristiana si può capire senza tener presente la via sulla quale è cresciuta.
Ma dobbiamo fare ancora un altro passo avanti: la Pasqua d'Israele, come è descritta normativamente in Es 12, nella sua novità non è affatto piovuta dal cielo, ma accoglie in sé vie della precedente storia delle religioni.
La novità di ciò che è cristiano, come la novità della rivelazione veterotestamentaria, è innanzitutto una via di distinzioni, di purificazioni e di "passaggi oltre", ma nel fare distinzioni nella umana ricerca, conduce alla meta gli elementi di verità di essa.
Questo nesso tra il culto cristiano e la storia delle religioni è di cruciale importanza.
Nel grande periodo del movimento liturgico, fra le due guerre mondiali, la teologia era largamente caratterizzata da contrapposizioni: il cristianesimo sembrava contro le religioni, il Nuovo Testamento contro l’Antico. Il "sacrificio" era visto come qualcosa che sta in contrapposizione alla grazia, una cosa che appartiene alle opere di pietà, che vengono superate dalla grazia.
E il "sacrificio" era visto come la categoria fondamentale delle religioni e anche del culto veterotestamentario.
Oggi ci troviamo di fronte alla tentazione opposta: quella di considerare tutto uguale, anche se sotto diverse forme culturali, e di vedere la storia delle religioni come sequenza di variazioni di un medesimo tema che, come tale, non appare mai puro. Sia l’uno che l’altro modo di vedere è sbagliato.
Certo, il sacrificio sta al centro delle religioni e - in modo diverso - anche dell’Antico Testamento.
Tramite la croce sta anche al centro del cristianesimo. La via delle religioni in direzione dell’Antico Testamento, e di questo verso Cristo, è, come già detto, una via di "passaggi oltre" e di distinzioni, una via di cambiamenti e di rinnovamento radicale, ma la ricerca della storia delle religioni, e soprattutto il pellegrinaggio d’Israele, non è affatto e-spunta, ma purificata e riportata a se stessa.
Anche il carattere cosmico della liturgia, di cui abbiamo già parlato, dipende dall'ancoraggio della liturgia al mistero pasquale.


Nella liturgia anche della più piccola comunità è sempre presente la Chiesa intera, e perciò non ci sono stranieri nella comunità liturgica, non c’è "comunità" chiusa in sé.
Questa fondamentale apertura e universalità che è propria di ogni liturgia è una delle ragioni per cui la liturgia non può essere pensata e fatta dalla singola comunità e dai suoi maestri di liturgia, ma deve essere fatta in forma interamente ecclesiale.
Oggi, parlando della dimensione cosmica della liturgia evidenzieremo anche il suo riferimento alla creazione, che viene in luce nel testo conciliare soltanto in modo indiretto. La liturgia vive dei doni della creazione, che in essa diventano doni della redenzione.
Ireneo ha mostrato con chiarezza agli gnostici che ritenevano la creazione opera del demiurgo, come l’eucaristia, nell'offerta del pane e del vino che diventano il corpo e il sangue di Cristo, lega inscindibilmente luna con l’altra: creazione e redenzione.
È un unico Dio quello che ha creato le offerte e che si dona nella trasformazione delle offerte.
La Chiesa antica ha espresso con lo sguardo rivolto verso Oriente l’ancoraggio della liturgia alla creazione e al contempo l’orientamento della creazione al nuovo cielo e alla nuova terra. La creazione geme sotto i passi di Adamo, essa attende la rivelazione dei figli di Dio, ci dice Paolo [Rm 8, 18-24). Oggi ci sembra quasi di sentire il gemito della creazione, e per questo è così importante che il riferimento alla creazione nella liturgia sia percepibile sensibilmente.
Così come nella liturgia ci può essere solo una comunità aperta, così anche lo spazio dell'edificio ecclesiale non deve avere niente in comune con quei blocchi di cemento che si chiudono alla creazione dandosi da se stessi la luce e l’aria che possono tuttavia provenire soltanto dalla provvista del mondo creato da Dio. L'edificio ecclesiale deve, dove è possibile, essere collocato nell'ampio spazio della creazione, e mostrare il contatto con essa, e, così facendo, mettere in movimento un cammino pieno di speranza verso il Signore che viene (cfr. sulla questione dell'orientamento verso est la più recente presa di posizione e il punto della discussione lo fa padre U.W.Lang in Conversi ad Dominum).
Le categorie fondamentali della riforma:
Comprensibilità - Partecipazione - Semplicità
Queste indicazioni dimostrano già che la considerazione della liturgia dal punto di vista della Pasqua non ci porta a stravaganze teologiche, ma ha un carattere eminentemente pratico.
Il nesso tra visione teologica e orientamento verso la riforma c’è perciò fin dall'inizio. Ma ci si deve comunque chiedere come il Concilio stesso vede la direzione nella quale la riforma, dal punto di vista pratico, deve andare.
A parte il fatto che tutte le affermazioni teologiche del Concilio sono profondamente orientate verso la prassi, bisogna dire che, in questo punto, esso riflette chiaramente i diversi accenti del movimento liturgico, per esempio laddove la Costituzione dice che la liturgia "benché sia anzitutto culto della Maestà divina, contiene però in sé anche una ricca istruzione del popolo fedele".
Purtroppo bisogna dire che nella prassi post-conciliare si è dato, quasi dappertutto, ampio spazio al carattere di ammaestramento, dando quasi un'impronta didattica alla liturgia.
Che parola e chiacchiere siano due cose diverse, l’abbiamo dovuto imparare tutti in modo spesso abbastanza brusco.
Sulla frase del Concilio appena citata non c’è davvero niente da obiettare, perché proprio l'epifania del sacro che si manifesta in segni, gesti e parole, è già di per sé istruzione. Inoltre la Costituzione aveva anche disposto che i riti dovevano essere di per sé "chiari“ (perspicui) e che "non dovevano aver bisogno di molte spiegazioni".
Aveva anche aggiunto che si sarebbero potute inserire nella liturgia delle "monizioni" (admonitiones) come aiuto alla comprensione.
Ma benché avesse raccomandato esplicitamente di essere brevi e di attenersi per lo più ai testi prescritti, per ora ha aperto una chiusa dalla quale si sono riversati veri e propri fiumi di parole.
a) Comprensibilità
Dobbiamo adesso approfondire alcune fondamentali categorie del Concilio relative alla prassi.
Vorrei elencarne tre, quelle che ritengo essenziali: partecipazione, comprensibilità, semplicità.
La parola centrale è senz'altro "partecipazione"; ma vorrei comunque cominciare con la "comprensibilità" richiesta per la liturgia, in quanto si tratta forse della parola che implica il maggior rischio di equivoco.
Il Concilio parla cinque volte dell’auspicabile comprensibilità (intellegere) della liturgia; il testo centrale relativo alla nostra questione però fa a meno di questa parola; vi abbiamo già fatto brevemente cenno: "I riti stessi siano chiari (perspicui) e non abbiano bisogno di molte spiegazioni".
Questa frase è da intendersi sullo sfondo di una liturgia fatta dal clero che rimaneva largamente inaccessibile al popolo, e non solo a causa della lingua latina: la sua lunga storia precedente e le complicazioni scaturite dai processi di crescita e di sviluppo avevano man mano creato quell’estraneità che si manifestava nel parallelismo tra le "devozioni" dei fedeli e la liturgia celebrata dal prete, facendo sì che i fedeli partecipassero solo in modo molto indiretto e del tutto inadeguato alla liturgia celebrata all’altare lì davanti.
Era urgente unire di nuovo prete e fedeli in una sola comune liturgia; spezzare la campana di vetro per favorire la comune adorazione in un "culto ragionevole": così si potrebbe tradurre il rationale obsequium del Canone Romano.
Queste parole riprendono il paolino logichén latreian (Rm 12,1).
Sono il risultato e portano il peso di un lungo cammino, in cui la Bibbia ha cercato e trovato, in modo sempre più limpido, il culto adeguato; hanno però accolto anche un cammino di ricerca filosofica che aveva condotto sempre più vicino alla comprensione biblica del culto di Dio.
Partendo da queste parole bisogna cercare di capire che cosa significhi, e che cosa non significhi affatto, comprensibilità e chiarezza della liturgia.
Prima di tutto, in esse si esprime il fatto che la fede biblica avanza una pretesa di ragionevolezza e, dunque di comunicabilità. Tale fede parla dell’unico Dio creatore, la cui realtà invisibile può essere percepita nelle opere della creazione attraverso la ragione (Rm 1,20); è fede nel Logos, la ragione creatrice fattasi carne in Gesù Cristo. La liturgia cristiana è liturgia del Logos, culto divino in "Spirito e verità" (Gv 4,23). L’orientamento pratico che ne consegue fu spiegato da Paolo  ai Corinzi così: "In assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, che diecimila parole con il dono delle lingue" (1 Cor 14,19).
La comprensibilità della liturgia è dunque un programma biblico.
Ma che cosa significa comprendere? La complessità di questo programma emerse soltanto nel momento in cui la liturgia fu tradotta nelle lingue nazionali.
Un esempio: il brano della Lettera ai Galati sui due figli di Abramo e la sua interpretazione come allegoria di giudaismo e Chiesa (Gal 4,21-31) non si comprende solo perché presentato in lingua volgare.
Solo adesso si vede chiaramente che senza un’approfondita interpretazione non lo comprendiamo.
Lo stesso vale per tanti testi della Scrittura, soprattutto per quelli che ci portano vicino al cuore del cristianesimo.
Vale per le grandi espressioni della preghiera eucaristica: chi oggi capisce davvero che cosa significa il carattere espiatorio della morte di Cristo; che cosa significa dire "siamo redenti dal Suo sangue"; che cosa vuol dire Paolo quando dice: "Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo“ (1 Cor 10.17), etc.
Con tutte queste espressioni ci troviamo però proprio nel cuore di ciò che accade nella celebrazione eucaristica, come suprema forma della liturgia cristiana. Nessuno può negare che la incomprensibilità di queste grandi espressioni oggi sta crescendo, in quanto, con la nostra cultura, ci stiamo allontanando sempre di più dai modi di vedere che si manifestano in queste parole.
E allora, che fare? Si potrebbero inserire sempre più spiegazioni, e così far diventare la liturgia un fiume di parole, trasformandola in una lezione scolastica; e con quale successo? Inoltre così potrebbero essere anche banalizzate le sue grandi espressioni - cosa che, purtroppo, succede abbastanza spesso -, i passaggi difficili della Scrittura potrebbero essere accantonati, e le parole della liturgia potrebbero essere ridotte a ciò che si ritiene comprensibile da tutti.
Ma in questo modo, nella liturgia, alla fine, non accade più nulla, si dissolve.
Non c’è da stupirsi, poi, di fronte al calo della frequenza in chiesa. E che finalmente si ricorra a "ingredienti" di altre religioni per ridare, in qualche modo, a tutto il brivido del mistero.
Da qui risulta che la comprensibilità è qualcosa di complesso e di esigente.
Non a caso la Chiesa antica conosceva il catecumenato, nel quale le persone alla ricerca di Dio venivano introdotte pian piano nella vita e nel pensiero della Chiesa, facendo sì che la loro sensibilità, la loro mente e i loro cuori lentamente si aprissero. L’accessibilità della liturgia non va confusa con la comprensibilità immediata di ciò che è banale.
E non la si può produrre semplicemente fornendo traduzioni migliori e gesti più comprensibili.
La si acquista soltanto per un cammino interiore - essa richiede "eruditio“, apertura d’animo, nella quale le supreme dimensioni della ragione si schiudono, dando inizio a un processo nel quale si acquista la facoltà di vedere e di ascoltare. 
Temo che i Padri conciliari abbiano realmente sottovalutato questa complessità della "comprensibilità", presupponendo ancora una coscienza comune che non c’è più.
La liturgia stessa non deve essere trasformata in lezione di religione, e non la si può salvare con la banalizzazione.
Ci vuole una formazione liturgica, o piuttosto una formazione spirituale generale, e il grande compito delle commissioni liturgiche e delle conferenze episcopali dovrebbe essere proprio quello di trovare le strade e le forme di essa. Gran parte dei cristiani di oggi si trova de facto nello stato catecumenale, e questo, nella pratica, dobbiamo prenderlo finalmente sul serio.
b) Partecipazione
Con ciò siamo arrivati al concetto di partecipazione. Le affermazioni che la Costituzione conciliare fa a tal riguardo sono complesse. Per prima cosa il testo sottolinea giustamente che i fedeli debbono accostarsi alla liturgia "con animo preparato". I pastori dovrebbero vegliare sul fatto che non siano osservate soltanto le leggi della valida e lecita celebrazione - e cioè le forme esteriori della partecipazione -, ma che i fedeli partecipino alla liturgia "consapevolmente, attivamente e fruttuosamente".
Qui entrano in gioco le varie dimensioni della partecipazione, che non deve ridursi alle azioni esteriori, ma che deve raggiungere l’intimo dell’uomo. Anche in quello che è propriamente il capitolo centrale sulla partecipazione, viene espressamente sottolineata la necessità di una formazione liturgica, l’accostamento ad una partecipazione interna ed esterna.
Tutto questo si deve tenere ben presente, poi, quando si leggono le regole pratiche per la partecipazione, particolarmente il numero 30: "Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni del popolo, le risposte, la salmodia, le antifone, i canti nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, il sacro silenzio".
È quel che il mio professore di liturgia, Josef Pascher, esprimeva col dire che non basta attenersi alle rubriche - le prescrizioni del cerimoniale esteriore; molto più importante è ciò che esige quel che è stampato in nero, il testo liturgico stesso che, come tale, include l’essere insieme ad ascoltare e rispondere, nella preghiera, nell’acclamazione, nel canto.
Per quanto riguarda tutte queste cose, negli ultimi decenni, ci sono sicuramente stati dei progressi di cui possiamo rallegrarci. Ma non si può non notare che c'è anche una certa superficialità: sembra che ognuno debba svolgere qualche mansione.
Quando sento dire da parroci miei amici che tanti dei loro fedeli, il giorno in cui a loro non venisse più affidato un qualche compito pensano che non sarebbe più necessario andare in chiesa, noto una superficialità che spaventa.
E allora la dinamica del passare dal visibile all’invisibile, dall’esterno all’interno, da qui a lassù, dal presente a ciò che deve venire, non interessa più.
Origene definì la natura del mondo, dal quale noi, come cristiani, dovremmo liberarci, come "attivismo".
Non sarà forse che ci siamo aperti al mondo fin troppo generosamente?
Avvertiamo ancora che stiamo di fronte al trono dell’Altissimo, che il cielo sopra di noi è aperto? Che siamo circondati dagli angeli e dai santi di Dio?
In una delle sue omelie sul Vangelo di Luca, Origene disse ai suoi fedeli: "Non ho nessun dubbio che anche nella nostra assemblea siano presenti degli angeli. Non solo in generale, per la Chiesa nel suo complesso, ma per ciascuno dei singoli fedeli".
E si chiede che cosa succederebbe se qualcuno pregasse per noi come il profeta Eliseo: "O Signore, apri gli occhi di questo bambino..." .
Laddove regna l’attivismo, gli occhi del cuore non possono aprirsi. Solo questa sarebbe la vera partecipazione alla liturgia, se cominciassimo a sentire il cielo aperto. Tutto il parlare, il cantare, l’agire dovrebbe, in ultima analisi, indurci a quel movimento del "passare oltre", in cui il silenzio può comunicare il suo messaggio.
c) Semplicità
Infine un breve accenno all'esigenza della "nobile semplicità" dei riti, che appartiene senz'altro alla tematica della comprensibilità e dell'apertura alla partecipazione.
La liturgia cristiana ha la sua origine nella sala dell’Ultima cena, nella quale fu anticipato e reso memoriale il mistero pasquale di morte e risurrezione.
Inizia così, dal semplice gesto di quell’ ora suprema, nel quale è però presente il dramma che cambiò il mondo, il dramma della crocifissione e della risurrezione del Figlio di Dio.
Questo dramma fu preparato nella storia della Pasqua, alla quale è sempre appartenuto il legame fra realtà drammatica (esodo; croce e risurrezione) e trasformazione cultuale.
La semplicità della sala dell’Ultima cena è di una profondità e ampiezza sconvolgenti; essa, in quell’unico gesto, accoglie l’intera storia del culto e della fede dell'umanità.
Nella teologia della seconda parte del secolo XX si era largamente diffusa la tendenza ad interpretare il cristianesimo come desacralizzazione e come anti-cultualità. La "semplicità" dei riti fu allora interpretata nel senso che in fondo essi non dovrebbero avere alcun senso sacrale, ma soltanto un senso pragmatico.
Questo non è il luogo per setacciare, per così dire, i semi di verità di questa teoria, separandoli dalla terra e dalla roccia, come se si trattasse del lavaggio dell'oro.
È nel suo insieme che la teoria è errata.
Il semplice atto dello spezzare il pane e dell'offerta del calice è un atto veramente sacrale - la riconciliazione tra Dio e il mondo nell’amore del Figlio. Ciò che è vero è che la struttura liturgica, i singoli segni, atti e parole dovrebbero lasciare trasparire questo cuore e che dovrebbero portare in sé una "nobile semplicità" - quella ultima semplicità che corrisponde alla semplicità del Dio infinito, e la segnala.
Ma è anche vero che questa semplicità deve essere spiegata, che occhio e cuore devono essere aperti per poter impossessarsi di essa.
La liturgia può essere celebrata in grande semplicità in una piccola chiesa di paese, nelle angustie della persecuzione; può essere celebrata in grande solennità nella bellezza di una cattedrale.
L’essenziale è che grandiosità e fastosità non siano autonome, ma si limitino a indicare umilmente la vera festa: il sofferto sì di Dio al mondo, e a ognuno di noi. Perché è proprio questo che fa della vita una festa, che ognuno può dire di sé: "Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me“ (Gal 2,20).
Nella liturgia questa confessione si fa presente, per me, per tutti quelli che, credendo, partecipano ad essa.
Friedrich Nietzsche disse una volta: "La festa comporta: orgoglio, spavalderia, sfrenatezza...; un divino dire di sì a se stessi fatto di piena e perfetta animalità - tutti stati ai quali un cristiano non può onestamente assentire. La festa è pagana per eccellenza" .


È vero il contrario: soltanto quando c’è un mandato divino a rallegrarsi - soltanto quando Dio stesso garantisce che la mia vita e il mondo sono motivo di gioia può esserci una vera festa. E per questo la liturgia cristiana, nella quale diventa presente l’amore crocifisso di Dio, è la festa per eccellenza.
In questa gioiosa certezza la celebriamo, ed è così che la celebriamo nel modo giusto convinti delle parole di Paolo: "Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l'essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia.." (Gal.6,1-18)
Sia lodato Gesù Cristo + sempre sia lodato
http://www.cooperatoresveritatis.gomilio.com/it/ratzinger-la-vera-riforma-liturgica-del-concilio-e-gli-errori

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