giovedì 16 luglio 2015

“via cattolica” alle nozze gay?

Cari vescovi, davvero vi va bene così? 




di Riccardo Cascioli

Prosegue l’attacco in forze di hacker al sito de La Nuova Bussola Quotidiana, e per questo potrà accadere ancora di non potervi accedere; nel frattempo il senatore Carlo Giovanardi viene allontanato da un albergo a Cortina d’Ampezzo perché sgradito ad alcuni clienti; ancora, il PD medita di forzare le regole parlamentari per accelerare l’approvazione del ddl Cirinnà, che sancirebbe per legge la sostanziale equivalenza di coppie etero e omosessuali. Sono questi tutti segnali di nubi sempre più nere che si addensano sul nostro Paese, nelle mani di una potente lobby gay che sta imponendo una forma sempre più soffocante di totalitarismo, con la complicità di media, politici e aziende sempre pronte a piegarsi a quello che appare il potente di turno.

Ebbene, a rendere questo clima ancora più insopportabile contribuisce una parte della Chiesa italiana, ormai allineatasi al pensiero dominante. Nei giorni scorsi ho già indicato nomi e strategie così come appaiono evidenti dai fatti che si susseguono (leggi qui e qui). Ma la lettura del quotidiano della CEI, Avvenire, ci dà modo di capire sempre meglio dove si vuole andare a parare e anche la menzogna su cui si fondano certe tendenze alla resa incondizionata mascherate da difesa dei valori.

È interessante al proposito leggere la risposta che il direttore di Avvenire ha dato due giorni fa a una lettera firmata da Massimo Introvigne (in qualità di presidente del Comitato Sì alla Famiglia) e Alfredo Mantovano (vice-presidente del Centro Studi Rosario Livatino). Introvigne e Mantovano spiegavano (clicca qui) come non possa essere accolto un qualsiasi riconoscimento di “diritti di coppia” per le relazioni omosessuali e vada quindi respinta anche la versione edulcorata (si fa per dire) del ddl Cirinnà, laddove si parla di “istituto giuridico originario” per le convivenze tra persone dello stesso sesso.

La risposta del direttore di Avvenire da una parte conferma il via libera della CEI – o, meglio, del suo segretario - al compromesso sulla Cirinnà, dall’altra lo giustifica con motivazioni che meritano un approfondimento.

Leggiamo infatti sul quotidiano della CEI: «La questione della regolazione nel nostro Paese delle unioni tra persone dello stesso sesso ha assunto contorni più chiari (e più complicati) a causa della sentenza della Corte costituzionale n.138 del 2010. Quella sentenza – che non è un testo sacro, ma con la quale da cittadini dobbiamo fare tutti i conti – ha rigettato la tesi del “diritto alle nozze gay”. La nostra Costituzione, checché qualcuno impapocchi, è infatti chiarissima sul punto. La Consulta, però, ha posto contemporaneamente il problema/opportunità di «riconoscere» non solo alle singole persone bensì all’«unione omosessuale», in quanto «stabile» convivenza, «il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». La Corte fa riferimento all’articolo 2 della Costituzione (ruolo delle «formazioni sociali» dove si sviluppa la personalità umana) e non all’articolo 29 (riconoscimento della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio). Piaccia o non piaccia, insomma, non siamo più alla fase della disciplina dei diritti individuali. Si tratta perciò di trovare un percorso sensato – una “via italiana”, insisto da tempo – che affronti il nodo su un piano diverso da quello matrimoniale, che è strutturalmente il “piano dei figli” (con tutto quel che ne consegue a livello di mercificazione dell’umano, sino alla compravendita di grembi di madre e di gameti umani). Ecco perché parlo di un piano patrimoniale (che può diventare un piano della solidarietà). Il legislatore si sta orientando a sottolineare che si tratta di un istituto giuridico «originario»? A mio avviso, è una notazione importante e non solo un esercizio nominalistico. Purché si chiarisca che l’istituto giuridico delle unioni gay è «originario rispetto all’articolo 29 della Costituzione».

Dunque, secondo il direttore di Avvenire, tutto sta in quella sentenza della Corte Costituzionale che fa rientrare le unioni fra persone dello stesso sesso nelle “formazioni sociali” tutelate dall’articolo 2 della Costituzione. Ciò che però non viene detto è che non si tratta di una decisione “subita” ma di una opinione condivisa tanto che una lettura siffatta dell’articolo 2 della Costituzione è stata proposta più volte da Avvenire, ad esempio con gli editoriali del professor Giuseppe D’Agostino.


Ma come abbiamo avuto modo di scrivere più volte, quella lettura dell’articolo 2 è falsa, (leggi qui) gli interventi alla Costituente dimostrano chiaramente che ci si riferisce a istituzioni naturali in cui in nessun modo possono rientrare le convivenze. La sentenza della Corte Costituzionale cui si fa riferimento – che è forzata da un pregiudizio ideologico e che andrebbe dunque denunciata come tale - diventa perciò un comodo paravento per nascondere le proprie inconfessabili convinzioni. 

Tanto è vero che si propone questa sentenza come base per legiferare in tema di unioni fra persone dello stesso sesso. Il ragionamento che si fa sembra scontato: la Consulta ha deliberato, non possiamo fare altro che prenderne atto. Ma non è così: prima di qualsiasi altra indicazione, non ci si può esimere dal giudicare se una sentenza sia giusta o meno. Giusta nei confronti del testo della Costituzione, e giusta nei confronti del diritto naturale. La Costituzione non è il Vangelo e la Corte Costituzionale non è il Concilio.

Pensiamo ad esempio alla sentenza no. 162 del 2014: a proposito di fecondazione eterologa, la Corte Costituzionale ha sancito un “diritto al figlio”, stabilendo che «la determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, (…) non può che essere incoercibile». Potremmo mai accettare una affermazione di questo genere? Potremo mai stancarci di gridare che si tratta di un’invenzione (rispetto alla Costituzione) e di un’infamia (rispetto al diritto naturale)? Certo che no, né potremmo dire «visto che così dice la Consulta allora facciamo una legge che regoli il diritto al figlio», paletti che si vogliano fissare o meno.

Ma per Avvenire – che piaccia o non piaccia parla a nome della CEI – non è così. Evidentemente lì si pensa che bisogna obbedire prima alla Costituzione che a Dio, e lo chiamano realismo. Data la premessa “falsata” non stupisce allora che si arrivi a sostenere la legittimità del riconoscimento delle unioni fra persone dello stesso sesso. In questo modo la “via italiana” alle unioni civili diventa la “via cattolica” alle nozze gay.

Ciò che però appare incomprensibile è il silenzio dei vescovi italiani. Sappiamo – o perlomeno presumiamo - che non sono pochi coloro che non si riconoscono affatto in questa linea, eppure il segretario della CEI, monsignor Nunzio Galantino – il vero “dominus” di Avvenire e di tutti i media della Conferenza episcopale -, va avanti incontrastato per la sua strada. Nella distrazione generale, è presente ovunque: afferma, tratta, indica soluzioni, riscrive il Magistero. 
Ci si chiede: dov’è e come la pensa il presidente della CEI? E i tre vice-presidenti? E tutti gli altri vescovi italiani? Come è possibile che un segretario – che per statuto non ne ha affatto il potere – possa fare il bello e il cattivo tempo su una materia così delicata come questa?
Cari vescovi, davvero vi va bene la “via cattolica” alle nozze gay? 

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