martedì 3 gennaio 2017

aborto: diritto di libertà




L’aborto. Reato, diritto o libertà?



2di Massimo Micaletti


Si legge negli ultimi tempi che la 194 considererebbe l’aborto un reato; così come si leggeva e si legge ancora da qualche parte che l’aborto è una libertà; il Parlamento Europeo lo ha poi recentemente incluso tra i diritti umani.
Nessuna di queste posizioni è corretta, nessuna è condivisibile e proverò a spiegare il perché. Toccherà parlare di diritto, ma forse ne vale la pena.
  1. L’aborto non è un reato.
Qualcuno asserisce che l’aborto è un reato perché la 194 sanziona penalmente l’interruzione di gravidanza praticata al di fuori delle regole che essa 194 pone.
Ragionare così significa non aver presente il senso proprio della Legge in questione: per la 194/78 l’aborto è un trattamento sanitario, in quanto tale teso a tutelare la salute; come per ogni forma di trattamento sanitario, ove esso non venga effettuato nei modi di legge viene irrogata una pena, ma questa è ben altra cosa rispetto al ritenere l’atto in sé come reato! Per essere più chiari: pure se un medico mi opera malamente di appendicite o di calcoli commette un reato, ma questo non vuol dire che operare di calcoli o di appendicite sia un reato! Persino una visita medica, praticata senza il consenso informato, può integrare un reato, ma questo non significa che la visita medica sia un reato in sé!
Non dobbiamo farci ingannare dal fatto che la 194 preveda specifiche figure di reato, distinte da quello tipico del trattamento sanitario illegale, ossia la lesione colposa: questa specifica previsione non comporta che l’aborto in sé sia un reato ma è dovuta al fatto che la legge deve prevedere, agli effetti penali, anche una minima forma di tutela vita del concepito, per paventare una sorta di compatibilità con la nostra Costituzione che, ricordiamo, riconosce il diritto alla vita ad ogni essere umano[1]. Pensiamo, analogamente, ai reati ambientali: sono previste specifiche fattispecie, ma questo non significa che, in generale, gettare una carta in terra sia un reato.
C’è poi un altro ordine di considerazioni: la Corte di Cassazione Penale nel famigerato caso Spallone (la cosiddetta clinica degli orrori dove venivano uccisi bambini anche di sette, otto mesi di gestazione) ha sancito chiaramente che il discrimen tra procurato aborto ed omicidio volontario è il distacco fisico del feto dall’utero[2]. Scrive la Corte “La condotta di procurato aborto, prevista dall’art. 19, L. 22 maggio 1978, n. 194, si realizza in un momento precedente il distacco del feto dall’utero materno; la condotta prevista dall’ art. 578 c.p. si realizza invece dal momento del distacco del feto dall’utero materno, durante il parto se si tratta di un feto o immediatamente dopo il parto se si tratta di un neonato. Di conseguenza, qualora la condotta diretta a sopprimere il prodotto del concepimento sia posta in essere dopo il distacco, naturale o indotto, del feto dall’utero materno, il fatto, (…) configura il delitto di omicidio volontario”. Perché? Perché, come spiegano i Giudici, la vita umana (non è irrilevante ma) ha un valore differente a seconda che il concepito sia saldato o meno al corpo della madre.
Qualcuno ha poi detto e scritto che per la 194 l’aborto sarebbe un reato perché l’art. 22 della legge recita in un passaggio: “non è punibile per il reato di aborto di donna consenziente chiunque…”. Ora, le norme vanno lette per intero[3]: l’art. 22 disciplina il caso in cui qualcuno avesse procurato l’aborto su donna consenziente prima dell’entrata in vigore della 194, quando davvero l’aborto era un reato. In altri termini, il senso della norma è scriminare coloro (medici e madri) che, prima del 22 maggio 1978, avessero praticato o richiesto l’interruzione di gravidanza. Questa stessa norma, dunque, afferma esattamente l’opposto di quella distorta lettura che qualcuno propone: il significato dell’art. 22 è “Prima l’aborto era reato, ma siccome ora non lo è più non si può più essere puniti anche se il fatto è stato commesso quando la 194 non c’era”.
  1. L’aborto non è una libertà.
Se per il nostro ordinamento l’aborto non è un reato, ebbene esso non è neppure una libertà, quindi non può essere rimesso esclusivamente all’autodeterminazione della madre. Perché? Per due ordini di ragioni: 
una già la sappiamo ed una la dobbiamo approfondire.
La ragione che già consociamo è che, come ho scritto poco sopra, l’interruzione di gravidanza è un trattamento sanitario – altrimenti non lo pagherebbero le pubbliche casse – e ciò comporta non solo che non sia una libertà, ma solo un diritto condizionato. Per essere più chiari: io non ho diritto a che la sanità mi regali medicinali, ho diritto che paghi le mie cure solo se sono malato (ecco perché ci vuole la “ricetta” dal farmacista). Solo ove sussista la mia patologia sussiste il mio diritto.
La seconda ragione è che, siccome il nostro ordinamento riconosce agli articoli 2 e 3 della Costituzione il diritto alla vita del concepito, non è possibile che la sua soppressione sia rimessa esclusivamente all’autodeterminazione della madre. Questo l’ha detto, ad esempio, la Corte costituzionale[4]. Ecco perché la Legge 194 pone delle condizioni per abortire: che poi esse siano condizioni labilissime – soprattutto per l’aborto entro i primi novanta giorni – è pacifico, in quanto costituiscono l’ennesima foglia di fico per nascondere la finalità abortista della legge stessa. Tuttavia, esse sono un astuto espediente per tenere in piedi la legge: come ha scritto la Corte costituzionale, la 194 si regge al cospetto della Costituzione sull’assunto che la soppressione del concepito sia una forma di tutela della salute della donna, non della sua autodeterminazione.
  1. L’aborto è un diritto umano?
Purtroppo, messa così, ossia definendolo trattamento sanitario, l’aborto può ben rientrare nel catalogo dei diritti umani, ma solo in apparenza.
In effetti, datosi esso viene considerato un mezzo di tutela della salute, non si può negare che il diritto alla salute sia compreso, appunto, tra le prerogative che la Dichiarazione del 1948 intende garantire. Però se ci fermiamo qui commettiamo lo stesso errore che ha commesso la Corte costituzionale nel 1997 là ove ha ritenuta la Legge 194 compatibile con la nostra Carta fondamentale: e quale sarebbe questo errore?
Come ho accennato poco sopra, la Corte costituzionale, nella sentenza 35/1997 ha sancito il diritto alla vita del concepito[5], ma ha affermato che ove la prosecuzione della gravidanza comporti un pericolo per la salute fisica o psichica della madre, ebbene allora questa, per “difendersi”, può chiedere che il nascituro sia soppresso. Si tratta tecnicamente dello stato di necessità, ossia la possibilità che io ho di far del male a qualcuno se questi sta per fare del male a me o ad altre persone[6].
Ora, però, l’errore della Corte costituzionale –e di chi ritiene l’aborto un diritto umano – è che perché possa invocarsi lo stato di necessità deve esserci proporzione tra il bene leso e quello minacciato. Ad esempio, io non posso sequestrare un giornalista che sta per divulgare falsità sul mio conto, perché il bene della libertà personale, di cui privo il giornalista, è più importante del bene questi vuol danneggiare, ossia la reputazione. Parimenti, il bene vita è superiore per importanza al bene salute: in altri termini, per tutelare la mia salute non posso privare qualcun altro della vita, soprattutto se, come avviene nell’aborto, non è neppure la gestante che materialmente attua la soppressione del concepito, ma un Medico, quindi soggetto terzo e del tutto estraneo alla causa di giustificazione dello stato di necessità. Se fosse davvero plausibile la tesi che un soggetto, per tutelare la propria salute, possa privare altri della vita, sarebbe allora paradossalmente lecito che un malato di cuore chieda ad un Medico di privare del cuore un’altra persona per poter guarire.
Anche tra i diritti umani esiste una gerarchia: al vertice sta il diritto alla vita, tutti gli altri soccombono innanzi ad esso.
L’aborto quindi non può essere compreso nel catalogo dei diritti umani perché anche ove, contro ogni evidenza scientifica, lo si ritenesse un mezzo di tutela della salute, ebbene non potrebbe mai essere un mezzo lecito perché viene attuato a scapito della vita di un altro soggetto.
  1. Conclusioni.
L’aborto è un reato? Allo stato dell’arte, dunque, non lo è; per le ragioni che ho esposto sopra ed anche perché apparirebbe alquanto singolare che lo Stato italiano pagasse persone per attuare reati (non dimentichiamo infatti che la 194 non ha solo legalizzato l’aborto, ma lo ha depenalizzato e soprattutto lo sovvenziona).
E’ una libertà della donna? Neppure, perché essendo considerato un trattamento sanitario non può essere attuato ad libitum, ma solo se ricorrono certe condizioni (che in concreto non esistono, in conformità alla logica abortista di tutta la 194, ma che servono a dare una parvenza di costituzionalità alla legge).
E’ un diritto umano? Neanche, perché anche a volerlo considerare una forma di tutela della salute (che è un diritto umano), ebbene non può essere esercitato a prezzo della vita di altri.
Ma è poi davvero un trattamento sanitario? Davvero tutela la salute della donna? La psicologia dice tutt’altro e la letteratura in materia è sterminata.  

L’aborto è la soppressione di un essere umano innocente, questo è. Con ogni conseguenza psichica, etica e sociale.
Se il nostro ordinamento ritiene di aver risolto il problema con una legge omicida che comunque la si giri porta sempre e solo, nella lettera e nell’attuazione, alla distruzione del concepito, ebbene noi dobbiamo puntare sempre e solo, nella lettera e nell’attuazione delle nostre intenzioni, alla distruzione della legge 194 e dei suoi epigoni come la Legge 40. E’ un percorso graduale ma necessario e senza alternative o sconti, senza accontentarsi. È un assedio.
Non si scende a patti col Male, non si cerca il modo di “entrare” nelle sue logiche per guastarle dall’interno, poiché esse fatalmente ci intrappoleranno. E quel che si legge in giro ne è una prova.

[1] Non va dimenticato che la 194 fu emanata, tra l’altro, sulla scorta dei criteri già individuati dalla Corte costituzionale nella sciagurata sentenza 27/1975, in cui appunto i Giudici da un lato indicavano la necessità di una minima protezione della vita nascente, dall’altro però sancivano che rispetto ad essa fosse sovra orinata la tutela della salute della gestante.
[2] Cass. pen. Sez. I, 18-10-2004, n. 46945.
[3]Art. 22. Il titolo X del libro II del codice penale è abrogato. Sono altresì abrogati il n. 3) del primo comma e il n. 5) del secondo comma dell’articolo 583 del codice penale. Salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, non è punibile per il reato di aborto di donna consenziente chiunque abbia commesso il fatto prima dell’entrata in vigore della presente legge, se il giudice accerta che sussistevano le condizioni previste dagli articoli 4 e 6”.
[4] Corte cost., 10/02/1997, n. 35; Corte cost., 28/01/2005, n. 48.
[5] Ma lo ha fatto anche, ad esempio, enlle sentene 26/81 e 48/2005.
[6] E’ previsto dall’art. 54 C.P. che  dispone che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.

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